
Marta Clinco
@MartaClinco
Francesco Floris
@Frafloris
Mercoledì 22 aprile abbiamo intervistato il dott. Paolo Magri, Vice Presidente esecutivo dell’ISPI – l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, nell’approfondimento di Stataleradionews, il Gr di Radio Statale. Qui potete ascoltare l’audio dell’intervista.
Dott. Magri, quali sono i dettagli dell’accordo – o della bozza d’accordo – siglato a Losanna poco meno di quattro settimane fa tra Iran e P5+1 (Paesi che hanno un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu + Germania), soprattutto per quanto riguarda le sanzioni da parte degli Usa, dell’Ue e della Comunità Internazionale nei confronti di Teheran? In cosa consistono oggi le sanzioni e quali potrebbero essere revocate al momento?
L’accordo limita fortemente il numero di centrifughe che l’Iran può continuare a utilizzare, mette fuori gioco di fatto per la durata dell’accordo le due centrali al plutonio che l’Iran possiede, garantisce – questo dicono le linee guida – un’ispezione ai siti per le agenzie internazionali e, in cambio di ciò, vengono tolte le sanzioni. Quest’ultima è la parte un po’ più vaga delle linee guida, nel senso che è soprattutto su questa che si concentrerà il lavoro nelle settimane che mancano per la scadenza finale. Per Teheran le sanzioni devono essere tolte tutte e subito — ricordiamo che ci sono sanzioni dei singoli Stati, dell’Europa e degli Stati Uniti, e sanzioni Onu che toccano vari aspetti, come la capacità di raccogliere fondi e di utilizzare fondi iraniani depositati all’estero, la capacità di acquistare tecnologia, in particolare per l’industria dell’estrazione del greggio. Gli iraniani si aspettano tutto e subito, mentre gli altri Paesi vorrebbero delle formule diverse — anzitutto gradualità, e in secondo luogo la possibilità di reintrodurre le sanzioni automaticamente senza dover ripassare dal Consiglio di Sicurezza, qualora Teheran non dovesse rispettare i termini dell’accordo.
Nella lettera redatta dal Senatore repubblicano dell’Arkansas Tom Cotton e poi co-firmata da 47 senatori repubblicani sui 54 totali, si legge una sorta di avvertimento ai leader della Repubblica islamica dell’Iran. Di fatto, il GOP – l’ala più intransigente dei repubblicani americani – sostiene che nessun accordo o trattato con Teheran avrà alcun valore se prima non verrà votato (ed eventualmente emendato) da maggioranza qualificata al Congresso. Alla luce di ciò, quali sono e cosa chiedono gli schieramenti che sia negli Usa che in Iran si oppongono all’accordo sul nucleare?
Questa lettera in realtà è arrivata qualche giorno prima della chiusura del negoziato di Losanna, nel tentativo di dare un colpo duro alla possibilità di chiudere l’accordo.
Poniamo che io scriva a dei negoziatori iraniani – negoziatori che sono lì a litigare con le altre parti per le ultime fasi di un accordo che, come ovvio, richiede concessioni, e tali concessioni sono pesanti da vendere all’opinione pubblica iraniana, e soprattutto a Khamenei e ai vertici religiosi – ecco, poniamo che io scriva a queste persone: “Negoziate pure, ma tanto poi non lo implementeremo”, è chiaro che andrei a creare un clima negativo. L’obiettivo di questa lettera era appunto quello di creare un clima per cui gli iraniani non avrebbero accettato concessioni last minute sapendo che ci sarebbe stato questo rischio.
L’accordo a Losanna invece è stato trovato. Questa lettera, insieme anche ad altre prese di posizione, tra cui quelle di alcuni candidati alla Casa Bianca – Jeb Bush ha già detto che quest’accordo non si deve fare, e che se dovesse essere lui il futuro Presidente non lo considererà – rappresenta una pesante interferenza che può rendere complicato l’iter finale dell’accordo. Laddove tuttavia l’accordo venisse firmato, sappiamo già oggi che nel frattempo la Commissione Esteri del Congresso ha approvato all’unanimità un obbligo per il Presidente di passare attraverso il voto parlamentare per ratificarlo – questo c’è già. Obama, che aveva detto avrebbe posto il veto, di fronte al voto unanime della Commissione Esteri – compresi dunque i democratici – ha accolto positivamente la questione. Cosa può succedere alla fine? Se l’accordo si trovasse in modo equo, con le garanzie per tutti, è difficile che un Presidente repubblicano – laddove venisse eletto un Presidente repubblicano, e non è detto – rimetta tutto in discussione, riaprendo una questione che tutto sommato sarà a quel punto conclusa. E, in quel caso, a cosa sarebbe servita effettivamente questa lettera, queste prese di posizioni dure di alcune parti del Congresso? Semplicemente, ad aumentare la posta nel negoziato con l’Iran.
Il programma nucleare iraniano in realtà è di lunghissima data: nasce nel 1957 sponsorizzato proprio dagli Usa – all’epoca alleati della dinastia Pahlavi, dopo averli riportati al potere nel 1953 ai danni del Presidente Mossadeq – e serviva proprio a ridurre la dipendenza dell’Iran dal settore petrolifero (il Paese è il secondo dell’OPEC per riserve di greggio, e il petrolio rappresenta l’80% delle esportazioni totali del Paese). Sulla base di tutto questo, aver tentato di isolare l’Iran in questi anni attraverso le sanzioni internazionali, spesso incentrate proprio sul settore petrolifero, e sommandosi a ciò i prezzi in caduta del greggio dal settembre 2014 che mettono ancora più a rischio la sostenibilità delle finanze del Paese, di fatto l’Occidente ha involontariamente incentivato l’Iran stesso a procedere sulla strada del nucleare (almeno quello per scopi civili) che sembra l’unico modo per sottrarsi al giogo delle sanzioni e raggiungere una parziale sicurezza e autonomia energetica. Le chiediamo una riflessione su queste considerazioni.
È vero, la questione del nucleare iraniano risale al 1957, ma ci riferivamo allora al nucleare chiaramente per uso civile. Negli ultimi dieci, quindici anni, la Comunità Internazionale si è convinta – e l’Iran nega – che il vero obiettivo non sia il nucleare per uso civile, bensì il nucleare per uso militare, che non ha nulla a che vedere con la sostituzione del petrolio o con le quotazioni del greggio. Questo è un tema che gli iraniani negano, e che tutti gli altri Paesi danno invece per certo. Per quanto riguarda questo accordo, comunque, si parla ora di nucleare per uso militare, non civile. È chiaro che il negoziato riduce anche la capacità di Teheran per quanto riguarda il nucleare civile, ed è per questo però che alla fine non è stata azzerata tutta la capacità nucleare, in sostanza un qualche uso civile viene riconosciuto come leggittimo anche dal negoziato.
Dott. Magri, cambiamo argomento. Come ISPI avete organizzato interessanti cicli di conferenze con giornalisti, professori, diplomatici e studiosi anche per analizzare il fenomeno ISIS e il suo aspetto mediatico: quali sono stati i punti nevralgici che avete sottolineato in queste tavole rotonde – potrebbe spiegarci quali sono le differenze sostanziali fra la comunicazione/propaganda di Isis e quella a cui eravamo maggiormente abituati, utilizzata da altri gruppi terroristici come al-Qaeda?
Nei diversi incontri dell’ISPI abbiamo trattato sì il tema della comunicazione di ISIS, ma abbiamo cercato anche di aiutare persone che sono interessate a questo tema – e dovremmo esserlo tutti – a capire cosa sia questo fenomeno, un fenomeno che un anno fa non vedevamo, e che ora per alcuni mesi, gli ultimi, abbiamo visto come la top news di ogni tipo di comunicazione. Abbiamo cercato di capire e di spiegare come si finanzia, perché è nato, perché parla di sé come di “Califfato”, che significato ha questa parola che a noi fa sorridere, perché ci sembra l’equivalente europeo dell’Impero Romano, ma che nel mondo arabo e musulmano ha un suo significato pregnante. Abbiamo cercato quindi di sviscerare il tema della comunicazione, benché teoricamente, parlando di terrorismo, non dovrebbe essere il tema centrale da affrontare. Ma in questo caso diventa elemento importantissimo, dal momento che sulla comunicazione poggia uno degli elementi fondamentali di questa “nuova” variante del fenomeno terroristico. In primo luogo, ISIS utilizza la comunicazione come fa uno Stato, e in questo testimonia la propria volontà di apparire effettivamente come Stato. Ogni Stato comunica all’interno e all’estero, usa vari strumenti di comunicazione. E l’ISIS non si comporta più come il terrorismo di al-Qaeda, che vedevamo solo in comunicati a immagine fissa, sulle montagne – comunicati in cui Bin Laden guardava fisso in camera e leggeva i suoi proclami al mondo.
Ci troviamo ora di fronte a una strategia che ha messo a punto una comunicazione destinata alle comunità locali – una comunicazione rassicurante, con filmati, depliant e brochure: “l’ISIS fa funzionare i forni, l’ISIS gestisce le aiuole, l’ISIS riapre gli ospedali” – e ha affinato, sul fronte opposto, una comunicazione terrorizzante rivolta all’opinione pubblica internazionale: “l’ISIS sgozza, l’ISIS distrugge l’arte del passato, l’ISIS brucia il pilota giordano”.
C’è inoltre una terza forma di comunicazione di tutt’altro tono, messa in atto con tutt’altri strumenti, rivolta ai giovani occidentali, quelli che si tenta di reclutare attraverso il meccanismo dei foreign fighters; lì vi troviamo i meccanismi dei videogames e siti dal tono leggero che hanno il compito di radicalizzare l’ideologia nel tempo. Tutti questi strumenti – dalla brochure patinata, al filmato, al sito internet – sono tutti realizzati con delle tecniche estremamente sofisticate, in varie lingue, con immagini accattivanti. I siti internet di ISIS appaiono come i siti di aziende, società avanzate, che comunicano in modo avanzato, e in tutto questo risiede l’elemento di grande differenza rispetto al passato e agli altri gruppi terroristici. Uno degli aspetti importanti che noi con molta difficoltà riusciamo a comprendere è la propaganda della violenza efferata: a noi pare rivoltante – anche durante un periodo del nazismo abbiamo visto agire in questo modo, in Germania, quando la violenza era diventata il messaggio fondamentale – ma va a toccare gli istinti umani di una parte di popolazione che a queste immagini e a questi messaggi risulta evidentemente molto sensibile, quasi eccitata, ed è portata ad entrare e a cader vittima della rete del terrorismo islamico.

Sempre per quanto riguarda lo Stato Islamico, le proponiamo una domanda che facciamo sempre ai nostri ospiti esperti in questioni mediorientali: quanto conta nella causa sposata dai jihadisti e nel Jihad in generale la dimensione ideologico-religiosa, quanto quella etnico-culturale e quanto quella politico-economica, legata a interessi più prettamente concreti nell’aerea sotto il loro controllo?
Le prime due si confondono: evocare la dimensione religiosa – il Califfato, per intenderci, lo Stato di Levante – richiama non solo un riferimento religioso, appunto, ma anche l’epoca d’oro di queste terre, quando conquistavano altre terre, quando erano luoghi di ricchezza, luoghi di prestigio e bellezza. In questo confondere la dimensione religiosa e la dimensione del passato glorioso, si vanno a intercettare le frustrazioni e le insoddisfazioni dell’opinione pubblica della società araba – società che ha vissuto il periodo della fine dell’Impero Ottomano, la fine del colonialismo, le delusioni dell’epoca del nazionalismo arabo, le delusioni delle primavere arabe, le delusioni – e qui veniamo alla componente economica – del declino economico e della povertà diffusa, e su tutto questo il richiamo a quel passato glorioso, quello del Califfato – che è anche un passato religioso, ma non è anzitutto questo il tema – ha una sua presa.
Dott. Magri, le ultime due domande: alla luce dell’ennesima strage di migranti nel Mediterraneo avvenuta nella notte fra sabato 18 e domenica 19 aprile, si fanno sempre più insistenti le voci (anche da parte di esponenti politici di vari schieramenti) di chi vuole mettere in atto un blocco navale lungo le coste libiche – quando non bombardare i barconi degli scafisti. Come si attua operativamente un blocco lungo una una costa lunga 1770 km, premesso che i barconi non partono dai “porti ufficiali” per così dire? E inoltre: dopo le infinite polemiche sui costi di Mare Nostrum (9 milioni di € al mese – una cifra tutto sommato risibile rispetto agli obiettivi raggiunti nel 2014, 150.000 persone salvate dalle acque) non è che si verrà a scoprire che il blocco navale oltre ad essere una soluzione eticamente discutibile diventa sconveniente anche sotto il profilo economico?
Chi propone il blocco navale lo fa perché vuole approfittare di un tema ora molto caldo nell’opinione pubblica.
Lo fa contrapponendo a quell’immagine chiara, semplice e marmorea la vaghezza e la tecnicità delle proposte che vengono fatte invece da “chi ci capisce qualcosa”, che invece parla di cooperazione con la polizia, di posti di raccolta sul territorio, di revisione di Dublino III.
Tutte parole molto difficili, rispetto alle quali invece chi vuol fare demagogia continua a contrapporre quelle due parole semplici, “blocco navale”, evocando il blocco su qualcosa che è visto come fastidioso – ovvero l’arrivo di persone che molti non vogliono – e navale, che è invece qualcosa di natura militare.
Se fosse un blocco navale realizzato nelle acque internazionali – quindi lontano dalle coste libiche – significherebbe mettere in mare delle navi che, all’arrivo dei barconi pieni di disperati, le blocchino, carichino a bordo i migranti, visto che non è possibile rigettarli in Libia, e facciano da taxi verso l’Italia – e sarebbe molto peggio di quella che è l’accusa rivolta a Mare Nostrum. Se invece per blocco navale si intendesse un ingresso nelle acque libiche, arrivando fino alle coste del Paese, staremmo parlando di qualcosa che assomiglia in tutto e per tutto a un’operazione di guerra, e che quindi potrebbe scatenare delle reazioni da parte libica – salvo se avvenisse con accordo, ma non è chiaro l’interlocutore con cui si potrebbe redigere un accordo in Libia in questo momento. Significherebbe anche cercare di distruggere quelle navi – ipotesi che molti sottolineano, ma che si scontra con un elemento importante: non stiamo parlando di pescatori e di pescherecci autonomi, ma di una criminalità organizzata che gestisce un traffico che vale circa 700 milioni di euro, solo nel Mediterraneo. “Distruggere i barconi” oggi in Libia come abbiamo fatto in Albania vent’anni fa – dove non c’era un racket così organizzato, e le imbarcazioni distrutte non erano state sostituite con altre barche e altri canali in tempi rapidi – significherebbe bloccare il traffico solo temporaneamente, ma quello stesso traffico si svilupperebbe in tempi brevi altrove, dal momento che si tratta di un business molto lucroso.
È uscito sul Guardian un articolo in cui è riportata la dichiarazione di un esperto delle Nazioni Unite, il quale afferma testualmente che: “I Paesi sviluppati dovranno accogliere un milione di profughi siriani nei prossimi cinque anni”. Inoltre un rapporto dell’UNHCR stimava poche settimane fa che sono circa 51 milioni e 200.000 i rifugiati presenti oggi nel mondo, di cui solo il 6,8% (quindi circa 4 milioni) approdano nei Paesi cosiddetti sviluppati. Quante sono realmente – secondo i dati di cui lei e l’ISPI disponete – le persone che si stimano invece pronte a partire nei prossimi mesi – anche considerando l’arrivo della bella stagione – dalle coste del Nord Africa e dal Medio Oriente alla volta dell’Europa?
Sì, dovremo accogliere dei profughi siriani – come dice la sua fonte, almeno un milione. Sappiamo che oggi Giordania, Libano e Turchia ospitano quasi due milioni di siriani, quindi l’ipotesi che in futuro l’Europa debba accoglierne una fetta più consistente e significativa non stupisce affatto. Ricordo solo che l’agenzia ONU per i rifugiati ha lanciato un appello all’Europa affinché ospitasse 130.000 profughi siriani. Ad oggi, sul totale, ne sono stati accolti circa 30.000, dal momento che molti Paesi europei si sono rifiutati di prestare aiuto. È altrettanto vero che dei 50 milioni di quelli che l’ONU chiama internally displaced people (IDP) – persone che si muovono all’interno del proprio Paese, ma che devono lasciare le città di provenienza – la parte più significativa è a al momento a carico di Paesi che sono fragili quanto quelli dai quali gli IDP provengono – basti ricordare le vicende del Rwanda: durante il conflitto Hutu-Tutsi, Paesi come il Burundi, l’Uganda, la Tanzania sono stati sommersi da ondate prima di Hutu, poi di Tutsi, ondate che hanno creato ulteriore instabilità in Paesi già profondamente instabili. Di tutti questi milioni di persone, l’Europa, gli Stati Uniti e tutti gli altri Paesi avanzati ne ospitano una quota piccolissima – molto spesso vengono deportati, o fatti stazionare momentaneamente in altri Paesi limitrofi (non nei nostri). Il problema è serio, e andrà affrontato prima o poi: non è pensabile che la parte ricca del mondo scarichi questo onere pesante su Paesi che sono già fragili e in difficoltà. Nessuno ha dati precisi su quanti migranti arriveranno in Italia e in Europa dalla Libia nei prossimi mesi, ma la cifra che maggiormente circola è quella di diverse centinaia di migliaia di persone che giungeranno dai vari punti caldi del pianeta – Somalia, Eritrea, Etiopia, Sud Sudan, Mali, Gambia, Nigeria – e convergeranno con rotte diverse attraverso il deserto verso la Libia, muovendosi in grandi migrazioni. Ci sono sicuramente numeri significativi, e anche questo deve fare riflettere, in particolare sul tema del blocco navale – blocco navale contro chi, con orde di questo tipo? Non è solo una questione di costo, che chiaramente sarebbe significativo, ma anche di fattibilità – non è verosimile pensare di creare una sorta di fortezza.
Gli americani hanno cercato in tutti i modi in questi anni di bloccare l’immigrazione illegale dal Messico rafforzando le frontiere – nei tempi più recenti, addirittura innalzando un muro. D’altra parte, sappiamo che oggi negli Stati Uniti ci sono 11 milioni di immigrati irregolari, a fronte di anni di applicazione di queste politiche.
Quando una parte del mondo preme per spostarsi – o per migliorare economicamente, o per sfuggire a guerre e conflitti – si possono mettere in atto tutti i meccanismi di difesa – ed è ciò che hanno sostanzialmente fatto gli americani – ma non è possibile fermare il flusso. Dunque la vera riflessione da fare rispetto al tema del blocco navale – che si vende molto bene nei talk show televisivi, ma ha una sua valenza pratica molto limitata – è questa: dobbiamo cercare di ridurre il numero di persone che vuole lasciare il proprio Paese in questo modo. È necessario ripensare la politica di cooperazione, del nostro ruolo e di intervento sui conflitti – e non si fa in due settimane, non si fa sull’onda dell’emergenza, ma richiede una revisione e una riflessione profonde. In secondo luogo, bisogna evitare che le persone che comunque partono muoiano, ledendo la dignità di un mondo che vuole considerarsi avanzato. Bisogna cercare di non bloccare queste persone sulle coste libiche, ma intercettarle, per capire chi ha diritto a venire in Italia – intercettarli sui percorsi che fanno non solo in mare, ma anche nel deserto che fa migliaia di morti invisibili. Quando si parla in questi giorni di centri di riconoscimento – non certo in Libia, ma in Paesi come il Niger, sulle rotte dell’immigrazione – si parla proprio di questo: di creare in loco dei centri di smistamento. Ma poi – e nessuno ha il coraggio di dirlo – comunque a queste persone, se hanno diritto d’asilo in base alle leggi internazionali, andrà assegnata una destinazione finale: non potranno restare, non potremo lasciarle in un campo di concentramento nel deserto del Sudan. In ogni caso arriveranno nei nostri Paesi, e di questo dobbiamo farcene una ragione. Anziché discutere su come bloccare i migranti, dovremmo ragionare su come distribuirli e assegnarli in un modo più equo, non concentrandoli tutti a Lampedusa come cinque anni fa – poi siamo passati a tre, quattro posti in Sicilia, poi, lentamente, anche ad altre due regioni del Sud Italia. Oggi il 50% di queste persone si trova mal distribuita tra Puglia, Basilicata, Sicilia e Campania. Se fossero ripartite equamente su tutte le regioni italiane – anzi, non solo in Italia, ma fossero ripartite nei vari Paesi europei – staremmo ora parlando dell’assegnazione di poche decine di persone per città, di poche centinaia o migliaia di persone per Paese, e sarebbe un fenomeno che affronteremmo con maggiore serenità.