Arianna Bettin Campanini
@AriBettin
«Chi ha le immagini, chi conosce la situazione, può agire e prendere le decisioni giuste. In questo modo non dipendiamo dalle immagini di altri, ma abbiamo le nostre. Le immagini europee».
Queste le parole di François Hollande, pronunciate a margine del bilaterale franco-tedesco tenutosi lo scorso 31 marzo, per giustificare l’impegno del suo esecutivo a costruire, congiuntamente a Germania e Italia, un drone al 100% europeo.
Il MALE — no, non il male di vivere di Montale, non è nemmeno quello banale della Arendt — farà la sua comparsa nei cieli dal 2020. È un acronimo: Media Altitudine, Lunga Durata. E no, non si tratta né dello spot di un rotolo di cartigienica, né dell’incipit di un annuncio per signorine vogliose, ma proprio del drone che verrà sviluppato nel futuro prossimo dagli ingegneri del Vecchio Continente; un Kampfdrohne, un drone militare di medie dimensioni in grado di trasportare armi, per smarcare l’Unione Europea dall’industria del settore di USA e Israele e per diventarne concorrenti.
A occuparsi direttamente del progetto saranno Airbus Defence and Space, Dassault Aviation e Alenia Aermacchi, di Finmeccanica.
Si ventilava da un paio d’anni la possibilità di una simile convergenza: al Salone Aeronautico di Parigi del 2013 ne era stata data un’anteprima e a maggio 2014 le tre maggiori aziende europee del campo ne avevano già definito il piano di sviluppo.
In questi giorni il MALE2020 è stato lanciato ufficialmente dai governi coinvolti: da quest’anno lo studio del progetto entrerà nel concreto.
Come rileva Thomas Wiegold su Zeit, la principale finalità del drone europeo parrebbe essere più il finanziamento e il sostentamento delle grandi industrie nazionali. Fra cinque, dieci anni – quando il MALE sarà realtà? – sarà ancora valido e capace di sostenere il peso della concorrenza extraeuropea, di Israele e Stati Uniti? Non ci è dato saperlo, come non ci è dato sapere come e a che scopo verrà impiegato. Ciò che è certo è che da qui al 2025 ad Airbus, Dassault e Finmeccanica non mancherà il lavoro, e nemmeno i soldi.
Non è da escludersi che il drone possa essere usato anche o prevalentemente per scopi civili, secondo la filosofia del dual-use — che, banalizzando molto, sarebbe come comprare una Porsche per attaccarci dei buoi e andarci ad arare i campi. Tuttavia la scelta di fabbricare sistemi UAS (Unmanned Aerial Systems) made in EU armabili e di dotarne l’esercito ha toccato l’opinione pubblica tedesca, particolarmente sensibile al tema del riarmo — in Italia è difficile persino trovare qualcuno che ne scriva.
Non è possibile, d’altra parte, rimanere impassibili rispetto a un argomento grave e doloroso come quello delle stragi causate dagli attacchi dei droni negli scenari di guerra.
L’Huffington Post segnalava solo qualche mese fa come, stando alle stime dell’ong britannica Reprieve, nel corso guerra dei droni condotta dagli Usa in Pakistan, Yemen e Somalia per ogni terrorista ucciso le vittime civili siano state 28 e come in dieci anni di azioni militari condotte con velivoli senza pilota, su 41 leader di formazioni terroristiche eliminati i droni abbiano ucciso 1.147 persone innocenti. Secondo la New America Foundation di Washington, invece, il bilancio complessivo delle vittime dei 350 raid effettuati dal 2004 al 2014 dagli Stati Uniti sarebbe compreso tra i 1.963 e i 3.293, di cui tra i 261 e i 305 civili. Un’altra organizzazione, la britannica Bureau of Investigative Journalism, fornisce un bilancio tra i 3.072 e i 4.756 morti, di cui tra 556 e 1.128 civili.
Sono dati che, pur nella loro contraddittorietà, visto e considerato quant’è difficile reperire dati certi e attendibili, confermano il terribile impatto degli attacchi sulla popolazione civile.
Ma l’Europa vuole il suo drone e nel frattempo stiamo riprendendo a investire in armi e nell’industria militare. Per anni i governi dell’Unione hanno teso a risparmiare sugli armamenti e sugli strumenti di difesa ma, specialmente in un momento di agitazioni e stravolgimenti internazionali come quello attuale, la cosa non è passata inosservata.
La UE deve riarmarsi: a chiedercelo è la NATO.
A seguito di un patto stipulato fra le potenze aderenti al Trattato a settembre per far fronte al conflitto russo – ucraino, siamo obbligati (o, dato che non si tratta di un patto vincolante, ci viene “intimato caldamente”) a impiegare almeno il 2% del PIL in spesa militare.
La spesa media europea toccava a malapena l’1,6% alla fine del 2013, quella italiana l’1,2%.
Troppo poco per i nostri alleati, resi inquieti dalle tensioni a Est dei nostri confini.
Dopo vari ammonimenti e anatemi, l’ultima lavata di capo è arrivata dal Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg il 30 marzo, nel corso della discussione della Commissione per gli Affari Esteri del Parlamento Europeo: «Non può andare avanti così – ha affermato categoricamente – questo non riguarda solo il problema dell’investimento generale nelle spese militari, ma anche il problema della condivisione degli obblighi. Ho appena visitato Usa e Canada. Gli Usa si auspicano che gli alleati europei possano condividere di più. Il Pil dell’Ue è quasi uguale a quello degli Usa, ma gli Usa hanno coperto il 70% delle spese militari della Nato, quasi il doppio rispetto ai Paesi europei, e non può continuare così.».
È uno scontro fra premi Nobel (per la pace).
Una delle aziende protagoniste del progetto MALE2020, come si diceva, è la nostra Finmeccanica, immensa holding pubblica in via di restauro, le cui travagliatissime vicissitudini giudiziarie costellano cronicamente le prime pagine delle testate nazionali e internazionali.
Vista e considerata l’attuale situazione continentale e mondiale, viste le tensioni e i conflitti che ci interessano direttamente o indirettamente, il suo ruolo di protagonista potrebbe uscirne estremamente rafforzato.
Alla luce di questi dati e degli smottamenti politici ed economici internazionali, infatti, risulta più comprensibile la strategia recente del gruppo, perpetrata in modo particolare in seguito all’insediamento di Mauro Moretti alla sua testa, di potenziamento di tutti quegli ambiti di ricerca e sviluppo inerenti al compartimento bellico: aeronautica, elicotteristica, elettronica e sistemi per la difesa e la sicurezza.
La Repubblica parlava il 18 marzo di «scommessa» del gruppo sulle armi. In realtà ciò che ha portato l’Amministratore Delegato ex numero uno di Ferrovie dello Stato a svendere le partecipate del settore trasporti (Menarini, AnsaldoEnergia, Ansaldo Breda e Ansaldo Sts), sostanzialmente dismettendolo, e a puntare l’all-in sul militare è frutto di tutto meno che di una scommessa.
È un affare assicurato, tanto più se si ha dalla propria il governo e, soprattutto, il Ministero della Difesa.
I primi frutti di queste scelte non si sono fatti attendere: a meno di un anno dalla nomina in Finmeccanica, l’1 aprile, Moretti ha guadagnato la presidenza dell’ASD, l’Associazione europea delle industrie dell’Aerospazio e della Difesa.
Allora conviene e converrà ancora puntare, come prima e più di prima, ad armare gli eserciti dei Paesi emergenti – interessante e inquietante verificare quali (bastino la Siria di Assad, il Pakistan, la Libia e la Turchia) – ed evidentemente anche quelli dei paesi già emersi e cresciutelli (come ci siano riusciti è Storia): Israele, in prima battuta, poi Gran Bretagna, Germania, Spagna, USA e Francia, tra le potenze occidentali; Arabia Saudita ed Emirati Arabi in Medio Oriente?
Commissioni milionarie per produrre e distribuire strumenti di morte, o di difesa, o di pace e democrazia, comunque li si voglia chiamare.
Del resto, chiosava lo stesso Moretti non più tardi di un mese fa parlando davanti alla Commissione Attività Produttive del Senato, «il pacifismo è una bella cosa, ma ha delle conseguenze», perché «la domanda interna di difesa è piuttosto modesta e ci sono quelli che continuano a dire che bisogna ridurre, però se uno si azzarda a dire che chiudiamo la fabbrica, siamo noi i delinquenti».
Parlando di Finmeccanica e di industria bellica, chi mai ardirebbe tanto?