Marta Clinco
@MartaClinco
“Gli uomini della B Company erano in uno stato d’animo pericoloso. Avevano perso cinque uomini in uno scontro a fuoco il giorno prima. La mattina dell’8 febbraio 1968 porta l’ordine indesiderato di riprendere a perlustrare la campagna, il mosaico verde di risaie lungo il costone centrale del Vietnam.
Gli uomini non incontrano alcuna resistenza mentre entrano in un insediamento sconosciuto in provincia di Quang Nam. Così Jamie Henry, medico di vent’anni, entra in una capanna e abbandona il suo fucile verso il basso. Slaccia le bandoliere, si accende una sigaretta.
Proprio in quel momento, la voce di un tenente crepita attraverso la radio – Henry riferisce di aver radunato 19 civili, chiede cosa fare con loro. Ricorderà in seguito la risposta del comandante della B Company: “Kill anything that moves”. Uccidi qualsiasi cosa si muova.
Quell’8 febbraio 1968 Henry esce dalla capanna e vede la piccola folla di donne e bambini. Poi inizia la sparatoria. Pochi istanti dopo, i 19 abitanti del villaggio giacciono morti o moribondi” – dai file contenuti in un archivio segreto assemblato da una task force del Pentagono nei primi anni Settanta, poi raccolti dai giornalisti Nick Turse e Deborah Nelson e pubblicati per Time, in cui si trova conferma del fatto che le atrocità commesse dalle forze statunitensi in Vietnam furono molto più efferate e crudeli di quanto si pensasse e di quanto raccontato all’epoca. Documentati più di 320 episodi, oltre agli eventi drammatici del massacro di My Lai.
Laos, Cambogia, Vietnam del Nord e Vietnam del Sud. Quattro Stati indipendenti andavano a costituire la penisola indocinese nel 1954 a seguito dei trattati stipulati a Ginevra, che ponevano fine alla guerra d’Indocina dopo dieci, lunghi anni. Il 17° parallelo separava il Nord della Repubblica Popolare di Hanoi – di stampo comunista, guidata da Ho Chi Minh e dal movimento Vietminh, profondamente legata a Cina e Unione Sovietica – dal Sud, nella cui capitale Saigon era insediato il governo autoritario del presidente cattolico Ngô Đình Diệm, appoggiato economicamente e militarmente dagli Stati Uniti.
All’epoca qualunque scontro militare tra Stati Uniti – a sostegno del Sud – e Vietnam del Nord sarebbe stato impari. L’America era la maggior superpotenza mondiale – il Vietnam del Nord un Paese povero dell’ultimo mondo che aveva combattuto un lungo e aspro conflitto ed era ancora alle prese con una guerra civile. Nel 1955, allo scoppio della guerra del Vietnam, gli Stati Uniti possedevano la migliore forza armata del mondo: l’esercito americano era perfettamente addestrato a condurre una guerra sul continente europeo, forte dell’esperienza appena conclusa contro le nazioni del Patto di Varsavia.
Benché sulla carta gli USA godessero di uno straordinario vantaggio rispetto al NVA e ai vietcong, optarono almeno inizialmente per limitare le azioni di guerra, impegnando invece tutte le forze per impedire che il regime di Saigon, messo alle strette, cadesse, e l’ombra del comunismo di Ho Chi Minh inghiottisse tutta la penisola. Ma l’instabilità del Sud continuava ad essere progressivamente minata dalla discesa – lungo il sentiero denominato di Ho Chi Minh, appunto – di sempre più membri ben addestrati dell’esercito regolare dal confinante Nord, a sostegno dei guerriglieri vietcong. Questo avveniva nel 1964. In termini numerici, si parlerà dell’infiltrazione in Vietnam del Sud di ben 79.000 soldati nordvietnamiti solo nel 1966, 150.000 nel 1967. Il pieno coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto “era inevitabile”. Ebbe così inizio un capitolo interno alla Guerra Fredda, una guerra che fu di logoramento, che fu guerriglia, che fu guerra tecnologica, guerra totale e guerra limitata. Per gli USA, una guerra cui si “doveva” partecipare – per commistione di idee geopolitiche , politiche e basta, militari e sociali – una guerra che tuttavia non aveva mai dato davvero speranza di vittoria, in parte anche a causa dell’insorgere delle violente proteste interne – tanto in Vietnam, quanto negli USA.
“Tutti coloro che entrarono nel villaggio avevano in mente di uccidere. L’ordine era distruggere My Lai fino all’ultima gallina, non doveva restare nulla di vivo. Ma per noi non erano civili, erano vietcong o simpatizzanti vietcong. Quando arrivai vidi una donna e un uomo e un bambino che scappavano verso una capanna. Nella loro lingua gli dissi di fermarsi ma non si fermarono e io avevo l’ordine di sparare e sparai. Sì, è ciò che feci: sparai. Li ammazzai. Anche la signora e il bambino. Avrà avuto due anni” – dalla testimonianza del soldato Varnado Simpson della Compagnia Charlie sulla strage di My Lai, nel villaggio di Song My.
La strategia adottata in Vietnam mostrò sin dall’inizio tutti i suoi punti deboli: sembrava impossibile agganciare e distruggere concretamente le sfuggevoli forze nemiche dei vietcong, combattive, ben organizzate e molto mobili anche in terreni impervi, resistenti alla demoralizzazione e in grado di sfuggire agilmente al nemico, nonché di sferrare improvvisi attacchi con poche unità, infliggendo in questo modo piccole ma continue perdite alle forze statunitensi.
Le roccaforti “bonificate” a fatica dall’esercito americano venivano presto rioccupate dalle forze comuniste: le snervanti e pericolose operazioni offensive avevano lo scopo di fatto di liberare solo temporaneamente sempre gli stessi territori, destinati a tornare presto o tardi sotto il controllo del nemico. Negli Usa inoltre si faceva sentire la continua pressione dell’opinione pubblica, scossa e turbata dalle immagini della prima guerra in TV, ma anche contrariata per le ingenti perdite in termini di investimenti economici e militari, nonché per l’ “imprevedibile” lunga durata del conflitto sempre passato nel confuso background dei foreign policy affairs, i cui orrori ora bucavano brutalmente gli schermi delle principali emittenti.
“Questo lo zio Sam non ce l’aveva detto. Devi combattere il comunismo, gracchia lo zio Sam. Io cosa sia questo comunismo non lo so, e non me ne frega un corno di saperlo, e non me ne frega un corno dei dannatissimi vietnamiti. Se lo combattano da sé il comunismo, non c’è neanche un sudvietnamita tra noi. Aveva ragione mio padre quando si arrabbiò perché andai volontario. Imbecille, diceva, facci andare i figli dei signori. Loro mica ci vanno. Perché mio padre è operaio, e sai che ti dico? Sono sempre i figli degli operai che vanno a morire alla guerra! E spara, e spara, e spara. Ma quanto costa ogni colpo? Mezzo milione? Un milione? Come sono ricchi gli americani. Io, la guerra agli americani non gliela farò mai” – Niente e così sia, di Oriana Fallaci – dalla testimonianza di Hector, soldato americano.
Per i vietnamiti – che avevano storicamente perso tutte le battaglie più importanti, ma che nonostante ciò erano rimasti imbattuti – il conflitto continuò ben oltre il 30 aprile 1975, quando venne reso ufficiale il ritiro degli americani e delle oltre 39 nazioni che appoggiarono la superpotenza, con dispiego di aiuti economici e umanitari per tutta la durata del conflitto.
“Non ricordo altro che la gente ammazzata. C’era sangue dappertutto. Sia gli americani bianchi che gli americani neri ammazzavano. Spaccavano le teste in due e molti americani avevano addosso pezzi di carne. A me ammazzarono una figlia di ventiquattro anni e un nipotino di quattro anni” – dalla testimonianza resa a Time dalla contadina Do Thi Chuc, scampata al massacro di My Lai, nel villaggio di Song My.
“Apparve una forma di donna, e una testa. Apparve dietro la siepe. Nessuno cercò di interrogarla, fermarla, robe del genere. Gridando presero a spararle e la donna cadde restando agganciata a una canna. Da quel momento la sua testa divenne un bersaglio, le sparavano e le sparavano e potevi vederne le ossa che schizzavano via pezzo per pezzo. Non credevo ai miei occhi. Lungo il sentiero incontrammo due bambini: uno quattro e uno cinque anni, direi, un GI sparò al bambino più piccolo e allora il bambino più grande si gettò addosso a lui per proteggerlo. Il GI gli scaricò addosso sei colpi. Lo fece con molto distacco, in modo professionale” – dalla testimonianza di Ron Haeberle, fotografo della Compagnia Charlie sulla strage di My Lai, nel villaggio di Song My.
L’eredità della Guerra del Vietnam può essere vista, in modo semplice e crudo, in termini numerici, sebbene a conclusione di un conflitto il numero di vittime sia spesso inesatto – in genere, per difetto. Durante la Guerra in Vietnam, i francesi riportarono circa 76.000 morti e 65.000 feriti, mentre tra i loro alleati 19.000 persero la vita e 13.000 rimasero feriti. La stima delle perdite subite dal Vietminh è di 250.000 morti e 180.000 feriti, mentre quella tra la popolazione civile è di circa 250.000 morti. Morirono circa 58.000 soldati americani e più di 300.000 rimasero feriti durante la loro partecipazione al conflitto; di questi ultimi, 74.000 sono quadriplegici, o hanno subito più di un’amputazione. I sudvietnamiti riportarono più di 130.000 morti e 500.000 feriti. Anche le forze alleate subirono perdite: la Corea, con 4500 morti; l’Australia, con più di 500 morti e 2400 feriti; la Thailandia, con 350 morti; la Nuova Zelanda, con 83 morti.
Le forze del Vietnam del Nord e i vietcong subirono le perdite più pesanti: più di un milione di morti e 600.000 feriti – più di 300.000 combattenti comunisti risultarono dispersi in azione. Più di un milione furono le vittime tra i civili durante l’impegno americano in Vietnam. Nel Laos e in Cambogia – dove si combatteva contemporaneamente alla Guerra del Vietnam – le atrocità avvenute durante le rivoluzioni causarono la morte di altri due milioni di persone. Ne consegue che durante i conflitti in Vietnam e nei Paesi limitrofi – conflitti che terminarono in larga parte nel 1975 – quasi 5.000.000 di persone persero la vita.
I comunisti nordvietnamiti, vittoriosi, ereditarono di fatto un Paese devastato da trent’anni di guerre continue. Le infrastrutture della nazione erano in rovina, milioni di rifugiati vagavano per le immense campagne. Nel 1975 in Vietnam c’erano 200.000 prostitute, 879.000 orfani, 200.000 persone disabili e un milione di vedove di guerra. L’epurazione della società sudvietnamita, avvenuta nel grande caos generale, portò all’esecuzione di 60.000 “indesiderabili”, mentre la maggior parte dei sostenitori sudvietnamiti fu mandata nei campi di rieducazione, dove erano sottoposti a indottrinamento ideologico e torture fisiche. Dopo qualche anno, larga parte dei prigionieri cominciò a uscire dai campi – alcuni vi rimasero invece fino a metà degli anni Novanta.
“Ancora oggi sento che gran parte di me è morta in Vietnam, e a volte desideravo che tutto di me fosse morto lì. Per quelli che sono ritornati, la sopravvivenza non è facile, né costa poco. Le risate e la gioia sono rare. Gli incubi, i ricordi improvvisi, i dolori, svegliarsi bagnati di sudore: questa è la norma. I suoni e gli odori delle battaglie, della terra umida e della vegetazione, del sole bollente e dello sfinimento, delle imboscate e degli scontri a fuoco e delle battaglie vere e proprie, del sangue e della morte, tutto ciò fa parte della mia vita di tutti i giorni. I gemiti dei feriti, le imprecazioni, alcuni invocano la madre, altri urlano per chiamare i portaferiti o esclamazioni di ‘Oh Dio, oh Dio’. Così come tanti altri reduci del Vietnam, la rabbia che provo dentro mi logora, e l’unico rifugio è la completa solitudine” – dalla testimonianza in forma anonima di un veterano dell’esercito americano.