Del: 16 Maggio 2015 Di: Bianca Giacobone Commenti: 0

Bianca Giacobone
@BiancaGiac

A poche settimane di distanza dal fallito riadattamento cinematografico del Decameron fatto dai fratelli Taviani, un altro coraggioso regista italiano si candida al festival di Cannes ed esce nelle sale con una difficile opera della letteratura nostrana – o, per essere precisi, della letteratura dialettale napoletana.

Garrone, regista di Reality e di Gomorra, riunisce un cast internazionale per recitare in inglese la grande e misteriosa raccolta di fiabe di Giovan Battista Basile, “Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de li peccerille”, pubblicata nella prima metà del 1600 e rimasta famosa soprattutto per il dialetto raffinato, sovraccarico, musicale, un rimaneggiamento della lingua popolare tale da farne strumento d’arte. Già soltanto per aver deciso di fare un film su un’opera del genere, il regista Garrone dovrebbe destare in noi la più sentita ammirazione.
Ma quel che va ammirato, soprattutto, è il risultato.

Non è affatto facile portare la fiaba sullo schermo senza privarla di fascino, colori e magia, come sembrano suggerire quasi tutti i tentativi fatti in questo campo dell’industria cinematografica negli ultimi anni. Garrone ci riesce con una formula di perfetto e fragile equilibrio tra magico, comico, grottesco, bello da vedere. Un equilibrio che deve essere stato tanto difficile da ottenere quanto è difficile da spiegare.

Tanto del fascino del film indubbiamente viene dall’ambientazione. Ai palazzi finti e sgargianti che gli effetti speciali hollywoodiani e la Disney hanno ultimamente associato a tutte le più famose fiabe, Garrone preferisce lo splendore di castelli e borghi italiani, tutti veri . E perché non siano poi troppo realistici, vi incastona le principesse, le regine, i draghi, gli orchi che popolano da sempre ogni fiaba degna di questo nome. Questi personaggi ci guidano nelle loro storie, classiche e grottesche al tempo stesso, piene di suspense, riuscendo ad ottenere il misterioso effetto di farci affezionare e simpatizzare, pur rimanendo sufficientemente superficiali per essere fiabeschi.

La decisione di portare avanti tre storie, che ammiccano l’una all’altra senza mai incontrarsi per davvero, sarebbe potuta andare a finire male in un collage sconnesso e noioso. L’intreccio, invece, è abilissimo, e il risultato è un grande arazzo, bello da vedere tanto nel suo insieme quanto nelle diramazioni dei singoli quadri che ritrae.

Unica pecca forse è non aver potuto rendere omaggio alla straordinaria fattura linguistica dell’opera originale. Ma un omaggio del genere sarebbe probabilmente risultato impossibile, oltre che incomprensibile a chiunque non abbia orecchio per le più varie sfumature del dialetto napoletano del 1600.

Bianca Giacobone
Studentessa di lettere e redattrice di Vulcano Statale. Osservo ascolto scrivo. Ogni tanto parlo anche. E faccio il mondo mio, poco per volta.

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