Arianna Bettin Campanini
@AriBettin
La premessa indispensabile all’analisi del DDL Giannini è che chiamarla “la Buona Scuola” è una contraddizione in termini.
Scavando sotto le parole a effetto, quello che rimane del ddl è ben poco, e anche quel poco che rimane non è esente da critiche. È indispensabile sfuggire al prepotente manicheismo tipico della retorica renziana, che appiattisce qualsiasi dibattito sul piano della lotta tra il Bene e il Male, secondo una formula che oramai dovrebbe esserci familiare.
Bisognerebbe chiedersi per chi sia buona, la Buona Scuola, e prima ancora chi possa effettivamente qualificarla come tale.
Di certo non il Governo — ché, insomma, «ogne scarrafon’ è bell’ a mamma sua».
Come scrivevamo un paio di mesi fa, è fuorviante persino chiamarla “riforma”, perché – nonostante vi siano anche delle note di pregio, come la formazione continua dei docenti – non affronta de facto in alcun modo quello che risulta essere la principale criticità del sistema educativo italiano, ossia l’aggiornamento dei programmi, della didattica e del ciclo di studi. Sì, certo, c’è la digitalizzazione, c’è la laboratorialità e la pur controversa questione dell’alternanza scuola-lavoro, talmente vasta e potenzialmente rischiosa che meriterebbe una seria e dettagliata riflessione, prima di spedire carrellate di studenti del liceo a giocare a carte, o peggio, a fare fotocopie e caffè in una qualsiasi azienda che si fregi di una buona nomea, il tutto per un trafiletto sul curriculum dello studente. Della scuola vera, della “scuola-scuola”, quella fatta sui banchi, da una parte all’altra della cattedra, non si dice quasi nulla. Non si parla nemmeno di diritto allo studio, relegato in un breve articolo tra le tante – troppe – deleghe affidate al Governo, tutti temi che verranno affrontati in data da destinarsi e che di fatto saranno sottratti al loro luogo naturale, il Parlamento.
Uno dei concetti cardine attorno cui ruota l’intero documento è quello, estremamente ambiguo, di “autonomia”. Vera e propria bandiera della riforma, buona per ogni occasione, utile a condire qualsiasi orazione, l’autonomia più che come scopo è stata usata come pretesto.
Norberto Bobbio sosteneva che di fronte a grandi concetti generici fosse indispensabile, al fine di discernerne e analizzarne meglio la natura, trasformarli in frasi interrogative: quale socialismo?
Quale democrazia?
Quale autonomia?
C’è l’autonomia scolastica in senso stretto, quella relativa alla pianificazione dell’offerta formativa, e c’è un’autonomia scolastica in senso più ampio.
Entrambe, come vedremo, non vengono concretamente tutelate e garantite dal disegno di legge.
Dal DDL Giannini emerge virulenta la figura maschia del preside-manager, o preside-sindaco, che dir si voglia, che diviene a tutti gli effetti personificazione di questo autonomismo muscolare dell’istituto scolastico. Si badi: è il preside, non la scuola, a essere autonomo.
Al dirigente scolastico viene attribuito un potere vasto e articolato, ancor più vasto di quanto già non sia. A lui spetterà la stesura dei Piano d’Offerta Formativa (POF), fino a oggi di competenza del Collegio Docenti, l’onere e l’onore della scelta dei nuovi insegnanti in base al curriculum, così come la facoltà di rispedirli a casa dopo tre anni di servizio, ma anche di premiarli, se fanno i bravi, con il rinnovo della cattedra e con un bonus sullo stipendio.
I criteri con cui i docenti saranno valutati verranno disposti, ovviamente, dal preside stesso, in conformità al POF da lui redatto.
Resta da capire che fine faccia l’autonomia e la libertà d’insegnamento del professore, visto e considerato che sul suo operato, nel migliore dei casi, e sulle sue idee, nel peggiore, penderà sempre minacciosa la spada di Damocle. E quale ruolo potrà mai avere in Consiglio d’Istituto e all’interno del complesso scolastico, se in ultima analisi il giudizio sul suo lavoro spetterà a una commissione composta da due colleghi, un rappresentante degli studenti e uno dei genitori (chi di loro avrà mai modo di sperimentare in prima persona il metodo didattico del professore esaminato?), presieduta dall’Onnipotente?
Un preside assoluto, prima ancora che autonomo, perché i criteri con cui sarà a sua volta valutato triennalmente lasciano basiti: «Nelle more della revisione del sistema di valutazione dei dirigenti scolastici, per l’effettuazione della stessa si tiene conto […] dei criteri utilizzati per la scelta, la valorizzazione e la valutazione dei docenti e dei risultati dell’istituzione scolastica» (art.8, comma 15). Il comma 16 rinvia direttamente all’art.25 del decreto legislativo del 30 marzo 2001, in cui viene stabilito semplicemente che la valutazione spetterà a un collegio regionale (su quali basi e con quale cognizione, rimane un mistero).
Assoluto, perché nella pratica potrà assumere chiunque lo aggradi secondo il proprio piacere. Non proprio tutti, in realtà. L’inserimento in extremis del comma 3-bis all’articolo 9 impedisce che i presidi assumano familiari. Ma gli amici e gli amici degli amici sono i benvenuti.
Ma non temete: «la trasparenza e la pubblicità dei criteri adottati, degli incarichi conferiti e dei curricula dei docenti sono assicurate attraverso la pubblicazione nel sito internet dell’istituzione scolastica» (art.9, comma 3).
Non vi sentite subito più sereni?
Ogni Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam (per la definizione esatta, leggasi qui) potrà circondarsi dei suoi prediletti, fino a un 10% del corpo docente, nella gestione di «attività di supporto organizzativo e didattico dell’istituzione scolastica», senza però alcun onere ulteriore o maggiore per lo Stato. Per l’onore e per la gloria, insomma. Una doppia razione di croccantini, al più.
Ma l’autonomia scolastica viene inficiata anche sotto un altro fronte, quello insidioso del finanziamento.
Un ritornello nient’affatto simpatico che ricorre nelle pagine del DDL Giannini è quello del «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». È da mesi che, con una strana forma di doppia morale, si tenta da una parte di alimentare l’illusione di un’iniezione inusitata di risorse, e dall’altra si parla di “riforma a costo zero”.
Che la coperta fosse corta non ne avevamo dubbi. Che sia sempre la stessa – la nostra – a essere tagliuzzata non viene mai rimarcato a sufficienza. Per capire da dove arrivano buona parte delle risorse che verranno impiegate per la stabilizzazione dei 100mila precari, per i test Invalsi e per la valorizzazione del merito, bisogna tornare alla Legge di Stabilità, che ha visto, fra le altre cose, la decurtazione complessiva per i prossimi tre anni di 1 miliardo e 411 milioni destinati al Miur, attingendo anche – ironia della sorte – al Fondo per l’autonomia.
Non ci sarebbe nulla di male, dal mero punto di vista teorico, nell’ottimizzazione e nella differente allocazione delle risorse, ma si sta parlando di un settore mortificato e umiliato da decenni di pessimi provvedimenti che ne hanno prosciugato le casse e la didattica.
Che almeno si abbia il buon gusto di non annunciare con proclami altisonanti un’inversione di tendenza tutta virtuale, non foss’altro per il fatto che il DDL s’inserisce perfettamente nel solco delle riforme Moratti e Gelmini senza alterarne il modello, ma anzi mantenendolo.
Ed è anche per questa seconda questione, i fondi, che passa la distorsione del concetto di “autonomia scolastica”. I fondi per applicare le vaghe linee guida contenute nel testo concernenti la didattica non andranno oltre alle risorse già previste. C’è da sottolineare che in queste linee guida non c’è niente di trascendentale, niente di più di quanto già non si veda di norma in una scuola superiore: laboratori linguistici, teatrali, musicali, e via dicendo. Laboratori che stanno venendo inesorabilmente meno proprio a causa delle voragini nelle finanze scolastiche, persino nelle scuole di prestigio della ricca Lombardia.
Per tutto questo non è previsto alcun finanziamento pubblico ulteriore, con buona pace dell’autonomia, come non è previsto per l’apertura a orario continuato delle strutture.
E se i soldi mancano?
Semplice: non se ne fa niente.
È qui che interviene il privato, che potrà sostenere in maniera diretta la scuola che preferisce, ed è anche da qui che partirà la folle corsa allo sponsor da parte dei dirigenti. Grandi e piccole aziende, magnanimi benefattori, potranno adottare le scuole pubbliche, così da permetter loro la realizzazione di progetti, e consentire loro di ottenere, forse, un premio dal Ministero.
La vasta gamma di effetti collaterali di un sistema simile è alla portata dell’immaginazione di tutti. Difficile invece, se non impossibile, immaginare come esso possa favorire l’autonomia scolastica.
Lo studente universitario lo sa fin troppo bene: l’autonomia è tale solo se ce la si può permettere, altrimenti si rimane prigionieri del proprio status di povero Cristo, sottoposto alle corvées di chiunque sia disposto a colmare in qualche modo il vuoto pneumatico del nostro portafoglio. Fuor di metafora, l’autonomia è innanzitutto un’autonomia economica. Una scuola pubblica autonoma è una scuola che dispone liberamente di risorse sufficienti per l’ottimo funzionamento del suo istituto, per il completo esercizio delle sue facoltà e il dispiegamento delle sue potenzialità, in assenza di vincoli e di condizionamenti che vadano oltre a quelli imposti dalla relazione col Ministero. Autonomia diventa sinonimo di autogoverno, autodeterminazione, indipendenza.
Non è più autonoma nel momento in cui è la sua stessa povertà a determinare un ripiegamento su di sé, un depauperamento della didattica progressivo dovuto alla mancanza di attrezzature, di strutture, di fondi.
Non è più autonoma quando viene costretta a chiedere l’elemosina ai privati, siano essi persone, enti o aziende, perché a Roma si chiudono di anno in anno i rubinetti; come non può dirsi autonoma se si prefigura marcatamente come il luogo del pensiero unico, dove il giudizio di merito è sempre più arbitrario e un facoltoso benefattore può inserirsi e intervenire direttamente nella didattica dell’istituto, nello svolgimento della funzione prima di un’istituzione pubblica.
La verità è che la Buona Scuola, nella sua forma attuale, agitando il vessillo dell’autonomia scolastica, ne stralcia interi lembi, coronando molti dei sogni più o meno espressi del centro-destra (ricordate la legge Aprea?) e destrutturando il mondo scolastico, scindendo quello che dovrebbe essere un complesso organico in tanti piccoli atomi (atomi gli istituti, atomi i professori) operanti in un regime di competizione malsana, che non giova all’educazione dei ragazzi, creando gravi disparità territoriali, allargando la forbice Nord – Sud.
Per questo è falso sostenere che dietro non vi sia alcuna visione progettuale della didattica, che manchi di un Giovanni Gentile o di un’ideologia portante: quale sia la direzione di questo disegno di legge è lampante, quando se ne tasta lo scheletro, superandone la retorica.
Non è che l’ultimo passo: un’autonomia che ha più il sapore dell’abbandono, del sollevamento da qualsiasi responsabilità, nei confronti di un organo statale che per definizione non può autofinanziarsi – non dovrebbe essere tenuto a farlo, tantomeno obbligato da cause di forza maggiore – senza snaturarsi e degenerare rispetto al suo fine.
In nome di una falsa autonomia, la scuola verrà svuotata una volta di più del suo compito di educare alla prima forma di autonomia che dovrebbe interessare a uno Stato democratico: la formazione dell’autonomia di pensiero del cittadino.
Altro sulla Buona Scuola:
La Buona Scuola non è una riforma
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