Ho sempre pensato che sopravvivere a un figlio fosse un dolore insostenibile. Ora mi rendo conto che in realtà non si sopravvive. Non lo dico in senso figurato, è proprio così. Una parte di me non ha più respiro, non ha più luce, futuro. Perché il respiro, la luce, il futuro sono stati tolti a lui.
Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi
A distanza di dieci anni, ricordiamo ancora tutti limpidamente l’immagine della salma del giovane Federico Aldrovandi – il volto irriconoscibile, gonfio e tumefatto, coronato di sangue.
E ancora pensiamo: “Federico Aldrovandi non doveva morire”. Non così, non quella notte a Ferrara, diciott’anni appena compiuti, “riverso a terra, prono, con le mani ammanettate dietro la schiena”. Questa è la scena descritta dagli operatori del 118, chiamati dalla polizia alle 6 del mattino di quel 25 settembre 2005 e giunti sul luogo circa 15 minuti dopo. A nulla sono valsi i ripetuti tentativi di rianimazione: Federico moriva pochi minuti più tardi. Arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale. Perizie successive avrebbero stabilito che nello specifico si trattava di asfissia da posizione, o anossia posturale, causata probabilmente dalla pressione esercitata dai corpi e delle ginocchia dei poliziotti durante l’immobilizzazione, o nel tentativo di difendersi da quell’”invasato violento in evidente stato di agitazione”, che li avrebbe aggrediti a colpi di karate senza apparente motivo. Molto evidenti, invece, le 54 lesioni ed ecchimosi riscontrate sul corpo del ragazzo alla prima autopsia.
La famiglia viene avvertita solo alle 11 del mattino: Federico ha avuto un malore, Federico è morto. Ma la quantità di sostanze assunte da Aldrovandi si rivela assolutamente non sufficiente a causare un arresto respiratorio: la concentrazione di alcol etilico (0,4 g/L) era inferiore ai limiti fissati dal codice della strada per guidare, quella di ketamina 175 volte inferiore alla dose letale, e la dose di eroina assunta non poteva essere significativa, stando a quanto dichiarato dagli agenti stessi riguardo lo stato di forte agitazione del giovane (in genere, la sintomatologia dell’abuso di oppiacei è caratterizzata da uno stato di sedazione e torpore). Sul luogo dell’accaduto, vengono rinvenuti anche due dei manganelli utilizzati nell’operazione, spezzati.
I pochi testimoni non parlano: «Non ho visto niente e non voglio sapere niente. La polizia si deve anche difendere delle volte, le forze dell’ordine fanno il loro dovere, la notte, e che dovere che fanno. Delle volte ci rimettono anche la pelle. E delle volte purtroppo ci sono anche delle vittime. E ci sono e non c’entrano niente».
Inizialmente la stampa parla di malore, di overdose. “Muore a 18 anni: è giallo”, “Ragazzo ucciso da malore”, “Si è accasciato davanti agli agenti: diciottenne va in escandescenze poi crolla sull’asfalto”, “Il diciottenne colto da malore davanti ai poliziotti: scaricato da un’auto in fuga, ‘torchiati’ gli amici del morto”. L’ennesimo tossicodipendente violento ha fatto una brutta fine. Se l’è cercata.
Ma le perizie dicono atro – il volto stesso di Federico racconta una storia diversa. Una storia di violenza e abuso. Si leggerà nella sentenza: “Eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”. Sentenza che arriva solo 4 anni più tardi, dopo l’Appello, nel 2009. Sentenza confermata solo 7 anni più tardi dalla Cassazione. I quattro poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri vengono condannati a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Nel processo Aldrovandi Bis, tre agenti vengono condannati nel 2010 per depistaggio e intralcio alle indagini. Uno degli imputati viene rinviato a giudizio.
Dalle motivazioni della sentenza del giudice Francesco Maria Caruso: “Il caso che il tribunale deve affrontare riguarda la morte di un diciottenne, studente incensurato, integrato, di condotta regolare, inserito in una famiglia di persone per bene – padre appartenente a un corpo di vigili urbani, madre impiegata comunale, un fratello più giovane, un nonno affettuoso al quale il ragazzo era molto legato. Tanti giovani studenti ben educati e di buona famiglia, incensurati e di regolare condotta, con i problemi esistenziali che caratterizzano i diciottenni di tutte le epoche, possono morire a quell’età. Pochissimi, o forse nessuno, muore nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi: all’alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna ragione effettiva”.
A Ferrara, per i dieci anni dalla morte sono state organizzate diverse iniziative per ricordare. Ad alcune di queste prenderà parte anche la famiglia: “L’unica nostra speranza ora è che la giovane vita di Federico non sia stata spezzata invano”.