Del: 29 Settembre 2015 Di: Tommaso Sansone Commenti: 0

Tommaso Sansone

Ha fatto scalpore l’accusa lanciata dall’EPA (United States Environmental Protection Agency) secondo cui Volkswagen avrebbe messo in commercio circa undici milioni di auto più inquinanti di quanto dichiarato.

 

 

L’opinione pubblica e i rappresentanti delle istituzioni non si sono risparmiati nel giudicare il colosso tedesco dell’automobilismo, colpevole di aver spudoratamente by-passato gli standard ecologici tanto faticosamente inseriti nella legge.

Le critiche più pesanti sono giunte dagli Stati Uniti che, avendo importato buona parte della partita di auto “truccate” ed essendosi recentemente impegnati a ridurre le proprie emissioni atmosferiche, non possono venir meno agli accordi per colpa della disonestà di qualcun altro.

A gettare benzina sul fuoco ci hanno pensato i social network, dove battute satiriche ed esilaranti meme – bollati a dovere con gli hashtag #DieselGate e #VolkswagenScandal – si sono propagati al vertiginoso ritmo scandito dall’effetto Streisand, che da sempre accompagna gli scandali.

Una tale tempesta mediatica non poteva che avere delle conseguenze immediate, così adesso il governo tedesco, che come leader europeo ha l’obbligo morale di dare il buon esempio, deve dimostrare di poter rimettere tutto in regola e farla pagare cara a chi ha calpestato le normative ambientali, anche se, come riportano le testate di molti quotidiani alemanni, “Berlin wusste”: Berlino sapeva.

Ad ogni modo la punizione per Volkswagen arriva, veloce e tremenda.

Le viene preventivata una multa di 18 miliardi di dollari solo negli USA, altri ventotto stati avviano indagini alla ricerca dei veicoli compromessi, l’EPA ordina il ritiro dal mercato di oltre 500.000 veicoli, i titoli in borsa crollano (-18,5% solo il 21 settembre) e, mentre l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni, un gigantesco danno immagine sfigura il volto green che l’azienda teutonica stava mostrando proprio in questi giorni al Salone di Francoforte, dove è in corso l’esposizione dei nuovi modelli più all’avanguardia ed ecologici.

Le inchieste sono appena state aperte e tutte le verità su questo eco-imbroglio devono ancora venire a galla, eppure, con questa rappresaglia economica, le istituzioni e le agenzie di monitoraggio ambientale forse già si illudono di aver fatto giustizia e di aver mandato un messaggio forte e chiaro alle compagnie industriali irrispettose della natura.

In realtà però, gli osservatori più accorti avranno notato come l’intera faccenda ponga l’accento non tanto sul piano legislativo o etico, quanto su quello informatico.

Infatti, se l’accaduto rischia di entrare da un orecchio e uscire dall’altro nella testa dell’automobilista medio, la cui coscienza ambientale è di solito piuttosto esigua, lo stesso non si può dire per altri tipi di consumatori: quelli che hanno a che fare con attrezzature la cui componente software diventa sempre più consistente, come nel caso degli elettrodomestici.

In questi termini, l’aspetto più grave della vicenda non è semplicemente che Volkswagen abbia tentato di eludere i controlli, ma che abbia progettato un algoritmo ad hoc il cui compito specifico era di ingannare i supervisori, trasformando in tal modo uno strumento di ausilio in un dispositivo doppiogiochista.

Questo fatto volge i riflettori sulle problematiche di inserimento delle CPU nei beni destinati alla vendita su larga scala e sul fenomeno dell’obsolescenza programmata: apparecchi progettati per guastarsi.

Secondo le fonti storiche, il termine risale addirittura agli inizi del XX secolo con il paper Ending the Depression Through Planned Obsolescence, edito dal broker Bernard London, che proponeva di risollevare la crisi del commercio dell’epoca accorciando intenzionalmente la vita degli articoli.

Il binomio venne rilanciato nel 1954 dal designer dell’industria Brooks Stevens, che lo citò durante una conferenza per esprimere il concetto di «instillare nel compratore la voglia di acquistare un prodotto più nuovo»; da qui si diffuse rapidamente, a tal punto che verso la fine degli anni Cinquanta era comunemente usata per indicare gli oggetti che si danneggiavano facilmente.

La prima società a scagliarsi contro questa idea fu proprio la Volkswagen, che ne fece il bersaglio delle proprie pubblicità, in cui lo slogan “never change the VW for the sake of change” si accompagna ad un modello di automobile perfetto ed eterno, che il cliente non avrebbe mai sentito il bisogno di cambiare.

volkswagen

Nel 1960 l’obsolescenza programmata venne attaccata anche dal critico culturale Vance Packard, che attraverso il saggio best-seller The Waste Makers ne espose le conseguenze, tra cui l’inutile accumulo dei rifiuti e l’utilizzo inefficiente delle materie prime (tesi ritenute valide ancora oggi).

Col passare del tempo però, un numero sempre maggiore di imprenditori adocchiò i profitti economici derivanti da questa pratica, e, per non rimanere tagliati fuori dal mercato, quasi tutti decisero di adottarla.

Inoltre, se nel XX secolo la merce poteva essere predisposta a rompersi attraverso caratteristiche di fabbricazione puramente meccaniche o strutturali, il nuovo millennio introduce degli strumenti molto più raffinati per attuare la strategia del break-down premeditato: gli elementi computerizzati.

La crescente integrazione dei circuiti digitali, dei micro-processori e della connessione ad internet contribuisce ad aumentare sempre di più l’asimmetria informativa tra produttore e fruitore, costretto infine a relazionarsi con macchine dal funzionamento (forse volutamente) poco chiaro.

Con questi presupposti, è molto facile progettare un algoritmo che, oltre alle consuete operazioni, ne svolga anche altre “in incognito”, contro la volontà del proprietario; il caso di Volkswagen ne è la prova.

Christian Kleiss, docente di Business Management all’Università di Aalen, e Stephan Schridde, esperto di business administration, hanno condotto una ricerca su un vasto campione di apparati elettronici, dimostrando come gli effetti dell’usura pianificata siano maggiormente riscontrabili negli elettrodomestici, la cui vita media sarebbe scesa dai 20-30 anni (registrati negli anni ’70) ai due o tre attuali.

A rigor di logica però, i più esposti a questa tendenza sarebbero quelli digitali, come gli smartphone, i tablet e i media-player, che, a causa degli aggiornamenti periodici del software, potrebbero a un tratto non funzionare più a dovere.

L’upgrade di tali programmi può infatti divenire un metodo molto sottile e indiscreto per danneggiare un dispositivo: è sufficiente l’installazione di un codice “troppo avanzato” e con richieste troppo esigenti per spingere l’hardware in questione allo stremo delle proprie capacità, fino a romperlo.

Un’operazione ai limiti del boicottaggio e che tuttavia è l’unico modo di mantenere le proprie tecnologie al passo coi tempi senza doverle sostituire materialmente.

borghezio vs volkswagen

È comunque seccante e sospetto il fatto che il download di questi pacchetti informatici sfugga talvolta al controllo dell’utente e che una procedura ufficiale di down-grade (ritorno alla versione precedente) non sia prevista, ma anzi sconsigliata dalle case produttrici, al punto di rendere invalida la garanzia.

A ciò si aggiungono ulteriori limitazioni e mancanza di trasparenza date dal fatto che, nel caso di malfunzionamento, non è sempre facile far riparare gli articoli da un tecnico generico, ma spesso bisogna rivolgersi al personale convenzionato con la stessa marca dell’apparecchio.

Si crea così una sorta di fidelizzazione tra ditta e cliente, che diventa dipendente dall’intervento degli operatori qualificati e non è in grado di gestire in prima persona il proprio elettrodomestico, tanto meno di conoscerne i meccanismi profondi.

Alla luce di queste evidenze, diversi paesi hanno iniziato a prendere in seria considerazione il problema; In Francia, ad esempio, i deputati Eric Alauzet, Denis Baupin e Cécile Duflot hanno chiesto l’istituzione di un decreto per sanzionare penalmente i casi appurati di obsolescenza programmata.

Anche in Italia è stata avanzata una proposta di legge simile: i suoi sostenitori sono Luigi Lacquaniti, deputato di Sinistra Ecologia Libertà, e Simone Zuin, ideatore del sito web Decrescita Felice Social Network, che scoraggia lo sviluppo economico fine a se stesso, in accordo con la corrente di pensiero della Decrescita.

Perfino l’europarlamentare Mario Borghezio ha condannato il fenomeno e ha presentato una denuncia alla commissione di Bruxelles con la quale invita l’Unione Europea a tutelare gli acquirenti.

Insomma, che si tratti di opalescenza pianificata o di algoritmi con obiettivi nascosti, per far sì che il consumatore abbia piena consapevolezza e controllo sulla merce acquistata, è necessario che la catena di produzione continui a essere sottoposta alle verifiche di enti specializzati ed esterni alle fabbriche, altrimenti potremmo ritrovarci in mano (a) delle macchine imperscrutabili e programmate per nuocere.

Tommaso Sansone
Mi piace fare e imparare cose nuove. Di me non so quasi niente.

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