Francesco Floris
@FraFloris
Sono una decina di detenuti del carcere di Opera, in tenuta bianca da lavoro, che riverniciano le pareti esterne delle case fra via Amoretti e piazza Capuana, a Quarto Oggiaro. Per qualche ora sono liberi, niente guardie di sorveglianza, un solo poliziotto in borghese controlla che tutto si svolga senza incidenti. Ha tutta l’aria di voler rendere palese la sua presenza per evitare colpi di testa. A molti dei detenuti non conviene tentare un’improbabile fuga per il nord-ovest della città: gli manca ‘‘poco’’ da scontare e l’idea di vedersi allungare la pena non è fra le più allettanti.
È venerdì mattina, insieme a loro qualche politico, come il presidente della Sottocommissione Carceri di Palazzo Marino – in piazza Capuana c’è anche lo storico circolo Arci “Itaca” del Pd – un consigliere di zona e gli uomini del Nuir, reparto ambientale. È il Nucleo di intervento rapido di cui si avvale il Comune di Milano e l’assessorato ai Lavori pubblici per varie emergenze. Sono loro che hanno ripulito la città nei tre giorni del post May Day. Scherzano sulla retorica che invase Milano in quei giorni, sulle ‘‘bambine di 11 anni che con una spugna ripuliscono un muro’’. Fanno questo lavoro da pochi mesi, a 1.180 euro netti, 1.300 con le indennità e un contratto in scadenza dopo la fine di Expo, per almeno trenta di loro. Qualcuno va a casa già il primo di novembre, gli altri hanno ossigeno fino al cenone di Capodanno. Per lo più sono trentenni e quarantenni meridionali saliti da un anno al nord, come i loro genitori o nonni qualche decennio fa. Per via della crisi hanno perso il posto di lavoro in Calabria o in Puglia: carpentieri, imbianchini, idraulici.
Gli abitanti di Quarto Oggiaro sembrano molto soddisfatti di questo servizio rapido, efficiente e sopratutto gratuito. Si oppone solo un uomo che da queste parti gioca il ruolo della Cassandra. Si chiama Giacomo, romano, 80 anni e una sedia a rotelle, perché ha perso una gamba durante la Resistenza. Il che non gli ha impedito di continuare a fare casino negli anni: militante comunista, gira con una cartella in plastica in cui ha ritagliato gli articoli di giornale che lo riguardano. Pagine de Il Messaggero che titolano su di lui ‘‘Il violento barbuto’’, mentre una foto lo ritrae appollaiato sulle cancellate del Ministero dell’Istruzione – sempre senza una gamba. Sono le proteste che diedero vita al ‘68 italiano, contro la riforma del Ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Gui.
Giacomo si lamenta del fatto che i muri sono più gradevoli con le scritte che non riverniciati. «Almeno io ho qualcosa da leggere» mi apostrofa. E sopratutto dice: ‘‘Tanto domani mattina è tutto uguale’’ con l’aria di chi la sa lunga.
Si oppone, al limite della violenza, all’ipotesi che venga sfoltito il suo giardino al primo piano. È una sorta di bosco verticale che cresce rigoglioso. Non perché ci sia un’idea di progettazione dietro, ma solo perché abbandonato alle virtù della fotosintesi clorofilliana. Gli inquilini del palazzo si lamentano di come viene fatta l’irrigazione: accesa l’acqua e poi lasciata a scolare per diversi minuti, a volte ore. Giacomo parla di un fucile quando qualcuno propone di moderare il suo pollice verde.
La sera prima, altri detenuti del carcere di Bollate si sono esibiti nelle piramidi di Expogate davanti al Castello Sforzesco, nella lettura delle loro ‘‘poesie sul cibo’’ dal carcere. Nel punto di Milano più distante, non solo geograficamente, dalla loro prigione.
Poesie sul vino, sul latte, sulle pere, alcune affascinanti, altre imbarazzanti: rimane un modo per molti di loro di vedere le famiglie fuori dall’orario di visita, mentre gli agenti della polizia penitenziaria controllano il perimetro e osservano ogni gesto nei confronti dei carcerati, a cominciare dalle strette di mano.
Franco è uno dei ‘‘poeti’’, alto non più di un metro e sessanta e la voce rotta da un’operazione probabilmente alla tiroide. È dentro dal 2009 e deve restarci fino al 2022: tredici anni che sono figli di una condanna a diciotto, abbreviata per buona condotta. Un avvocato mi spiega che si può trattare di una condanna o per omicidio o per spaccio di droga con precedenti penali.
Prima di andarsene chiede il contatto per mandare le sue poesie e magari pubblicarle da qualche parte. Gli scrivo su un foglio l’indirizzo mail e mi guarda come se fossi pazzo. Anche la parola ‘‘indirizzo’’ cambia significato a seconda di dove abiti.