Angelica Mettifogo
Non serve essere fan sfegatati o cinefili compulsivi per notare che nei film di Wes Anderson qualcosa di indiscutibilmente intrigante c’è.
Piaccia o meno, il giovane Wes – classe ’68 – in una ventina d’anni ha rinnovato il modo di fare cinema, dando un tocco di colore e di originalità a un panorama avviato al monocromo e al monotematico.
Se esiste un autore del panorama cinematografico americano il cui stile è immediatamente riconoscibile, quello è Wes Anderson.
Laureato in Filosofia alla University of Texas, Anderson inizia presto a lavorare e nel 1996 pubblica il suo primo, poco conosciuto, cortometraggio Bottle Rocket (Un colpo da dilettanti).
Con il secondo lavoro Rushmore – commedia drammatica sulle avventure sentimentali, e non solo, di un quindicenne (Jason Shwartzman) – arriva il successo, ma è ancora presto per parlare di uno stile definito, di quel tocco tipicamente “andersoniano” che andrà delineandosi col tempo fino a compiersi ne I Tenenbaum, il primo vero film di Anderson.
Con una cifra stilistica particolarissima, che non manca di sollevare polemiche e pareri contrastanti, e un’attenzione al dettaglio quasi maniacale, il perfezionista Wes Anderson ipnotizza, affascina, ma soprattutto provoca. Come?
È il dettaglio che fa la differenza; per quanto minimo, è fondamentale nella costruzione dell’intero. Il film non è altro che la composizione di elementi quasi invisibili, eppure essenziali — come i lavori di Bosch, le cui fotografie sono quadri ricchi di preziosi particolari.
«Avrei fatto l’architetto» dice, e lo fa: ogni sua inquadratura è un progetto, una composizione di elementi in cui ogni cosa è al posto giusto. Primi piani penetranti, visuali dall’alto, prospettive frontali servono al regista per comporre un puzzle che si spiega attraverso immagini. Tutto armonicamente disposto così da aleggiare in un indisturbato equilibrio.
Mondi come piccoli plastici, o Boîte en-valise, quelli che il regista-architetto crea e analizza, che segue e accarezza con la telecamera nelle loro strutture portanti, quasi come volesse illustrare un suo progetto. Per gli appassionati di Wes Anderson e di architettura esiste addirittura un video in cui il regista spiega come arriva a costruire i mondi-set dei suoi film.
Il trucco e la genialità delle sue pellicole sta nella capacità di montaggio: non essendoci dinamicità né movimento, ogni inquadratura è diversa da quella precedente e da quella successiva, eppure perfettamente collegata ad entrambe.
Anderson non solo dimostra una tecnica magistrale ma anche una grande acutezza nel focalizzare un soggetto e immediatamente dopo un altro, diverso; ancora una volta, è il dettaglio che unisce: facendo dei suoi film collane di perle in cui nessun componente è identico al successivo, eppure ad esso unito da un filo sottile, dove il bello sta nell'(in)dipendenza da tutto.
Attraverso un’apparente leggerezza il regista provoca e l’occhio inesperto cade nella trappola: progettando questi microcosmi surreali e fantastici – queste gabbie isolate incompatibili e scollegate dal vero e da tutto ciò che è altro rispetto alla trama, esistenti in se stesse e per se stesse – tocca tematiche profondamente vicine alla realtà. Talvolta ne smaschera i tratti più amari — efficace il saluto a pugno chiuso di Mr Fox a conclusione della pellicola o la voluta ambiguità sul mondo al di fuori del Grand Budapest — dimostrando quanto in questa prospettiva la costruzione, l’ornamento, l’artificio siano più efficaci di tante parole.
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«Quando lui apre la scatola vedi qualcosa di scuro e di brillante, un caos ordinato di schegge, rifiuti, un pizzico di immondizia e penne e ali di farfalla, frammenti e totem di memoria, mappe di un esilio, documentazione e perdita. E allora dici, chinandoti: “Il mondo!”» Michael Chabon
Ed è qui che sta la sottile provocazione di Anderson: inebriato dalle atmosfere oniriche di questi mondi fantastici, solo un occhio attento può notare come dietro il tragicomico dei personaggi-caricature, dietro il contrasto tra piattezza dell’inquadratura e vivacità del colore, dietro al mondo-scatola, si celano una profonda riflessione sulla condizione del mondo vero, e la consapevolezza di costruire un’esistenza fittizia e artificiosa, esasperata e fragile, specchio della nostra.
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