Del: 9 Dicembre 2015 Di: Tommaso Sansone Commenti: 0

Nel XIX secolo fa la sua comparsa sulla scena archeologica europea un misterioso artefatto, che attrae l’attenzione di alcuni collezionisti d’arte.

È la cosiddetta Coppa di Licurgo, risalente all’epoca romana del IV secolo d.C. e che prende il nome dalla propria iconografia, rappresentante alcune figure mitologiche.

Si tratta di un calice diatrèto, cioè possiede una parte vitrea incastonata in una struttura decorativa di metallo, una tipologia di reperto particolarmente rara, tanto che di questi sfarzosi bicchieri ne sono stati ritrovati solamente una cinquantina.

La Coppa di Licurgo, però, è unica nel suo genere — il vetro di cui è costituita possiede l’affascinante proprietà di cambiare colore a seconda del modo in cui viene esposto alla luce (dicroismo), assumendo diverse tonalità che vanno dal verde al rosso.

Oggi le sostanze dicroiche sono piuttosto diffuse a livello industriale, ma funzionano con un principio ottico totalmente diverso da quello della coppa, che è ben più complesso, e ritrovarlo in un manufatto del IV secolo è a dir poco strabiliante. È il prodotto di una metodologia molto sofisticata, sviluppatasi solo nel XX secolo.

Che sorpresa dev’essere stata, per i ricercatori del tardo novecento, scoprire che la tecnica utilizzata per forgiare il vetro della coppa di Licurgo poteva essere definita a pieno titolo “nanotecnologia”.

Le analisi sul calice, iniziate nel 1958, giunsero a tale conclusione soltanto nel 1980, quando nei laboratori archeologici si decise di accantonare i normali strumenti d’indagine per ricorrere alle maniere forti.

Sottoposto all’enorme ingrandimento (500.000x) di un microscopio a trasmissione elettronica, il sontuoso bicchiere rivelò ciò che una semplice lente non avrebbe mai potuto percepire: un sistema colloidale di nanoparticelle di oro e argento, disperse nel vetro rispettivamente in concentrazioni di 40 e 330 ppm.

Secondo uno studio condotto dagli scienziati britannici Ian Freestone, Nigel Meeks, Margaret Sax e Catherine Higgitt, proprio la lega metallica formata dai suddetti corpuscoli sarebbe il segreto della speciale cromatura.

Le particelle di argento agiscono sulla radiazione incidente, rendendo massima la riflettività per lunghezze d’onda corrispondenti a colorazioni verdi-azzurre, mentre le particelle d’oro impediscono alle stesse gradazioni luminose di attraversare il vetro, facendo sì che la radiazione trasmessa risulti esclusivamente rossa.

I due meccanismi intervengono in contemporanea, ma con diversa efficienza a seconda di come l’artefatto viene esposto alla fonte luminosa, così che, in luce riflessa appare verde, in controluce si tinge di rosso e in altre orientazioni assume sfumature intermedie.

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Qual è il vero colore della coppa di Licurgo? La domanda non ha senso: nessun corpo fisico ha un colore “proprio” che sia unico. Per l’occhio umano (e per il cervello), ogni corpo assume il colore corrispondente al picco di emissione elettromagnetica che questo emette (nell’intervallo del visibile). Quotidianamente abbiamo a che fare con oggetti che “cambiano colore” a seconda di quanto è illuminato l’ambiente circostante. Più raramente abbiamo a che fare con oggetti che cambiano colore anche in relazione alla loro orientazione rispetto alla fonte luminosa: è il caso del vetro dicroico, di cui non varia solo la luminosità, ma anche la posizione del picco di emissione.

Data la minuscola dimensione dei grani (50-100 nm), trovare il principio alla base del dicroismo dev’essere stato un vero e proprio rompicapo per i primi dotti che esaminarono il calice (XIX secolo).
Ma com’è possibile che in un reperto romano del IV secolo vi sia l’impronta della nanotecnologia?
L’ipotesi più accreditata è che, nel modellare l’amalgama vitrea della coppa, gli antichi artigiani abbiano usato un bancone su cui erano soliti lavorare i metalli.
Oro e argento avrebbero rilasciato sul tavolo dei frammenti impercettibili poi rimasti appiccicati all’impasto, per tale motivo è probabile che nemmeno gli stessi artefici avessero compreso la procedura che aveva originato la sostanza cangiante.
Quel che è certo è che chiunque l’abbia forgiata aveva grande esperienza nel settore e non è da escludere che il dicroismo sia stato l’inatteso risultato di un’audace esperimento artistico.
A sostegno di ciò, le analisi indicano che la coppa di Licurgo sarebbe stata utilizzata solo per un centinaio di anni, mentre per oltre un millennio sarebbe rimasta in un luogo chiuso che l’avrebbe protetta dall’azione del tempo (si è ipotizzato ad esempio la tesoreria di una chiesa, un sarcofago, oppure un mausoleo; fatto che la dice lunga su quanto fosse considerata preziosa).
Con buona pace degli antichi mastri vetrai, il vetro dicroico viene odiernamente prodotto dall’industria di massa tramite un processo automatizzato e piuttosto semplice, che di sicuro non coinvolge tecniche di nanotecnologia.
Questo materiale viene comunemente utilizzato per la creazione di gioielli, sculture e altri oggetti di natura ornamentale, anche se il ruolo più interessante lo svolge all’interno degli strumenti ottici, dove viene inserito in forma di filtri interferenziali, come accade per i proiettori 3D, i proiettori LCD e i microscopi a fluorescenza, strumenti utilissimi per la biologia.

12346791_1139136756115408_1311572595_nIn figura: il principio di funzionamento di un microscopio a fluorescenza, alcuni filtri dicroici e dei gioielli in vetro dicroico.

Dal canto suo, la nanotecnologia concentra i propri sforzi verso settori che hanno poco a che fare con quello artistico, e comunque, lo sviluppo di nuovi meccanismi dicroici non è tra i suoi obiettivi.
La suddetta dottrina ebbe origine quando il brillante Richard Feynman (1918 – 1988), futuro premio Nobel per la fisica, trasse ispirazione dal romanzo “Waldo”, di Robert A. Heinlein, per scrivere “There’s plenty of room at the bottom” (letteralmente “C’è un sacco di spazio sul fondo”), il discorso che presentò il 29 dicembre del 1959 ad un convegno dell’American Physical Society.
Lo scienziato statunitense illustrò una serie di applicazioni che sarebbe stato possibile realizzare qualora fosse stato inventato un modo per manipolare la materia a livello atomico.
Tra le più entusiasmanti vi è forse quella di “ingoiare il dottore” (swallowing the doctor/Nanomedicine), ovvero di introdurre all’interno di un paziente dei minuscoli utensili telecomandati in grado di interagire con le singole cellule malate ed effettuare interventi chirurgici di estrema precisione.
Per ottenere tali strumenti, Feynman aveva pensato di impostare una catena di produzione in cui un primo strato di macchinari ne assembla di altri, identici ma più piccoli, i quali a loro volta ne costruiscono di più piccoli e via dicendo, finchè non si raggiunge la dimensione desiderata.
Anche se in seguito l’establishment accademico giudicò il contributo di Feyman alla nanotecnologia come piuttosto esiguo, il saggio del ’59 generò un forte impulso di creatività e ottimismo nella comunità scientifica: entusiasmati da quelle parole, i ricercatori del XX e del XXI secolo sfornarono una gran quantità di idee che prevedevano l’uso di nanomateriali nelle forme e nei ruoli più bizzarri.

12364252_1139137032782047_1776120121_oRappresentazione artistica di alcune nanoparticelle.

Eppure, dei tanti progetti fantasticati, pochissimi sono effettivamente realizzabili, in quanto non esiste ancora una tecnica per controllare i nano-utensili con sufficiente precisione; ecco perchè ancora oggi le loro modalità d’uso sono passive e poco raffinate.

In questi termini, alcuni derivati della nanotecnologia (soprattutto Nanotubi) vengono utilizzati per la produzione di tessuti e componenti per l’edilizia, dei quali aumentano la resistenza agli sforzi e la durabilità.

Inoltre, diverse specie di nanoparticelle (prevalentemente di argento) fungono da additivi chimici per cosmetici, creme solari, catalizzatori e speciali antibatterici (es. Silver Nano Health System), mentre altre hanno funzione detergente all’interno di impianti di depurazione, di desalinizzazione e di trattamento dei rifiuti.

Molti esperti del settore ritengono che, nonostante la nanotecnologia sia ancora in fase embrionale, presto potrebbe portare un contributo determinante in tutti i campi dell’industria.


Ringraziamenti:
Desidero ringraziare Michele Magnozzi, dottorando in fisica all’università di Genova, per avermi aiutato a comprendere meglio la materia in questione.

Tommaso Sansone
Mi piace fare e imparare cose nuove. Di me non so quasi niente.

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