Del: 3 Dicembre 2015 Di: Redazione Commenti: 0

Laura Loguercio

Lunedì 30 novembre Mario Bravo, trentottenne residente nella piccola città di Las Rosas a Santa Fe (Argentina), telefona per la prima volta ad una donna di Tucumàn per dichiarare poco dopo alla stampa: “È stata un’emozione fortissima. Ancora non riesco a realizzare ciò che mi sta succedendo”.

La sua commozione è comprensibile — Mario è uno dei tanti bambini “desaparecidos” durante la guerra sporca in Argentina e oggi, grazie all’associazione Las Abuelas de Plaza de Mayo, è finalmente riuscito ad entrare in contatto con la sua vera famiglia.

L’incertezza riguardo l’identità personale è un problema diffuso nel Paese sudamericano tra coloro che sono nati a cavallo tra gli anni ‘70 e ’80 e molti di questi, ormai adulti, ripongono nelle “abuelas” la speranza di poter un giorno conoscere i propri genitori biologici, dai quali furono separati quando erano ancora in fasce per essere adottati dai generali dell’esercito di Videla.

Durante i primi decenni del Novecento l’Argentina ha mantenuto le sembianze di una Repubblica adottando, però, sfumature sempre più conservatrici. Dopo provvedimenti per il miglioramento della sua economia, il Paese si era trasformato in un recettore di migranti in fuga dai conflitti europei, ma il benessere era soltanto apparente e presto le proteste della classe media avevano cominciato a minacciare la stabilità della classe dirigente fino al 6 settembre 1930, quando il generale Félix Uriburu rovescia il governo costituzionale imponendo un regime autocratico.

Questo è soltanto il primo degli innumerevoli colpi di Stato che tingono di nero la storia dell’Argentina per più di cinquant’anni, fino al 1983. Tra i protagonisti di questa tetra parentesi storica si distingue la figura di Juan Domingo Peròn il quale, seppur definito con gli epiteti più svariati (da rivoluzionario a demagogo a despota assoluto) rimane l’unico governante democraticamente eletto in questi anni di disordine generale. Dopo una prima presidenza nel 1955 e un secondo tentativo nel 1973 Peròn viene destituito definitivamente con il colpo di Stato del 1976 a cui segue il Processo di riorganizzazione nazionale: è l’inizio della “guerra sporca”. Dal 1976 al 1983 l’Argentina vive nel terrore sotto il controllo di vari generali tra i quali spicca il nome di Jorge Rafael Videla.

Plaza de Mayo Collage

Ciò che più stupisce è il fatto che durante la “guerra sporca” non scoppia mai un conflitto bellico apertamente dichiarato: i crimini venono sempre portati avanti nella massima segretezza. L’obiettivo dei generali, infatti, era mantenere un’apparenza di normalità e di stabilità del governo per evitare l’inimicizia delle grandi potenze a livello internazionale. Purtroppo l’unico modo per raggiungere lo scopo sembrava essere l’eliminazione fisica di tutti gli oppositori del regime e dei presunti tali. Diventava così abituale, nell’Argentina dei tardi anni ‘70, sentire per le strade storie di persone che sembravano improvvisamente essere svanite nel nulla – da qui il termine “desaparecidos”, spagnolo per “scomparsi”– quando, in realtà, venivano torturate e uccise dal governo.

Per comprendere l’immagine impeccabile che il Paese continuava a dare di sé anche durante l’apice delle violenze basta ricordare i Mondiali di calcio del 1978 — proprio in Argentina. La FIFA, infatti, non era turbata dai continui rapimenti di persone, Roberto Milazza del Corriere della Sera scriveva anzi: “L’immagine dell’Argentina è, ai miei occhi, impeccabile”. Mentre torture e omicidi non davano alcun segno di volersi arrestare, l’Argentina di Videla quell’anno vinse la coppa del mondo.

La democrazia ritor a solamente nel 1983 grazie alla presidenza di Alfonsìn che inizia a investigare i crimini perpetrati dai governanti a lui precedenti. Questi oggi sono ufficialmente riconosciuti come violazioni dei diritti umani e, quindi, crimini contro l’umanità.

Questo portava i generali a firmare nella massima segretezza un accordo che dava loro il diritto di adottare i bambini considerati figli di madri “sovversive e potenzialmente pericolose”.

Un gruppo di donne spinte dalla volontà di ritrovare i figli e i nipoti dai quali erano stati separati con la forza inizia ad incontrarsi ogni giovedì intorno alla Piramide de Mayo, al centro dell’omonima piazza di Buenos Aires, per marciare pacificamente portando prima un piccolo chiodo e, poi, coprendosi la testa con un velo bianco.

Inizialmente le attiviste non si curavano di redigere alcun atto costituzionale relativo alla fondazione del gruppo né di ufficializzarlo a livello burocratico. Oggi, invece, l’associazione è riconosciuta dalle più importanti organizzazioni mondiali ed è stata due volte candidata al Premio Nobel per la Pace (rispettivamente nel 2008 e nel 2010).

Con il passare del tempo anche i bambini rapiti sono diventati ormai adulti e hanno acquisito consapevolezza della possibile incertezza riguardante la loro origine. Tutti gli argentini abituati a chiamare “padre” un uomo che lavorava con l’esercito durante gli anni della guerra sporca, infatti, non possono più essere sicuri di avere fino ad oggi utilizzato quel nome attribuendogli il corretto riferimento. Queste persone, seppur totalmente inserite nella società contemporanea, non sono in grado di definire se gli individui con i quali hanno sempre vissuto, dai quali sono stati allevati ed educati rappresentino realmente la loro famiglia poiché il passato ha tutti i presupposti per rivelarsi molto più tragico.

Oggi dietro alle attività sempre più sofisticate svolte dalle “nonne” troviamo esperti in campo medico, giuridico, psicologico e genetico che aiutano considerevolmente tutte le fasi della ricerca. Recentemente è stata fondata una Banca Dati Genetica che raccoglie le mappe molecolari delle famiglie che hanno denunciato la scomparsa di un bambino e ciò, unito alle analisi del DNA mitocondriale (che si trasmette esclusivamente per via materna), ha permesso alle attiviste di ritrovare alcuni dei bambini scomparsi tra cui Mario Bravo, il nipote numero 119.

 

Redazione on FacebookRedazione on InstagramRedazione on TwitterRedazione on Youtube

Commenta