
Il 2015 è stato un anno di violenza contro la libertà di stampa.
I giornalisti che hanno perso la vita, come riporta il dossier di Reporter senza frontiere, pubblicato il 28 dicembre 2015, sono stati infatti 110 – di cui 67 durante l’esercizio della loro professione e 43 in condizioni ancora da chiarire. Dal 2005 ad oggi sono 787 i giornalisti uccisi, ma mai era stato superato il centinaio all’anno come nel 2015.
Il dato sconcertante è che, diversamente dagli anni precedenti, in cui si contavano per la maggior parte reporter caduti in zone di guerra, quest’anno i 2/3 delle vittime sono morte durante azioni mirate, ordite da cosiddetti attori non statali (da Al Queda ai narcos latini), spesso in regioni di pace.
Un esempio eclatante è l’attacco, di cui oggi ricorre l’anniversario, alla rivista satirica francese Charlie Hebdo. La Francia, secondo il rapporto di Reporter senza frontiere, si posiziona così al terzo posto per numero di giornalisti uccisi nel 2015, dopo Iraq e Siria.
Rispetto ai dati degli anni passati quest’anno ci troviamo davanti a una “ridistribuzione della violenza”:
l’azione giornalistica non viene arginata solo sul posto, ma impedita su larga scala. Come ha dichiarato il disegnatore francese Laurent Sourisseau, in arte Riss “Noi non abbiamo quasi mai mandato giornalisti in zone di guerra, è la guerra che è venuta da noi”
La Siria precede la Francia per numero di reporter uccisi nel 2015, dopo il macabro teatrino che ha in continuazione documentato le atroci decapitazioni di numerosi ostaggi da parte dello Stato Islamico. Tra questi ci sono due giornalisti americani uccisi nel 2014, James Fooley e Steven Sotloff e il reporter giapponese Kenji Goto nel gennaio 2015, tutti e tre decapitati dal militante Jihadi John nel deserto siriano. L’aggiornamento piu recente ci arriva dagli attivisti del gruppo Raqqa is Being Slaughtered Silently, che confermano la morte di Ruqia Hassan, una giovane giornalista che documentava la vita nella roccaforte jihadista di Raqqa, uccisa dall’Isis nei mesi scorsi, accusata di essere una spia dell’Esercito siriano libero.
Attualmente i reporter che si trovano in mano a gruppi terroristici e milizie rivoluzionarie come riporta un altro dossier annuale di Reporter senza frontiere sono 54 (di cui 26 solamente in Siria), mentre il Comitato per la protezione dei giornalisti ne conta 199 tra quelli imprigionati nel corso del 2015.
Altri Paesi rischiosi per il mestiere del reporter sono lo Yemen dove nella guerra civile sono morti Khaled Al-Washaly a gennaio e Abdul Karim Mohammed al-Khaiwani, a marzo. Abdul è stato accusato di cospirare contro i governo a fianco del gruppo ribelle sciita e successivamente ucciso.
Sono passate più in sordina invece i 244 cronisti e fotoreporter siriani e arabi morti tra il 2011 e il 2014, denuncia l’Ordine siriano dei giornalisti.
Tra le vittime più recenti c’è il regista Naji Jerf, autore di documentari anti Isis, ucciso nella città turca di Gaziantep, sul confine siriano il 27 dicembre 2015.
Un altro Paese che limita fortemente la libertà di stampa è il Messico (occupa il posto 148 su 180 nella classifica mondiale sulla libertà di stampa) dove dal 2000 ad oggi sono state uccise 88 persone legate al mondo dell’informazione e il 90% di esse è rimasto impunito.
Tra queste c’è Rubén Espinosa, un fotoreporter che lavorava nella città di Veracruz, una delle più pericolose di tutto il paese, controllata dai narcotrafficanti. Espinosa era un testimone scomodo perché denunciava da anni le violenze contro i giornalisti e le limitazioni della libertà di stampa sotto il governo di Javier Duarte de Ochoa (Partito rivoluzionario istituzionale). E’ stato trovato morto in un appartamento di Città del Messico il 31 luglio del 2015.
Le limitazioni imposte dal governo di Duarte hanno provocato malcontento e malessere tanto che è stata creata una petizione affinché venga indagato per i crimini commessi contro la libertà di espressione.
La Turchia si trova immediatamente dopo il Messico nella classifica mondiale della libertà di Stampa (149esima su 180). Il presidente Erdogan ha fortemente impedito l’espressione dell’opposizione e dei media ad essa collegati. Due giornalisti della rivista Nokta sono stati arrestati a novembre e un mese dopo la polizia di Istanbul ha fatto irruzione nella sede dell’emittente televisiva Ipek, accusata di essere legata all’imam Fethullah Gulen.
Nel corso del 2015 in Turchia c’è stato dunque un rapido declino della varietà dei mezzi di comunicazione e ciò ha limitato i diritti dei propri cittadini, come ha denunciato l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) all’indomani delle elezioni di novembre 2015.
Il dossier di Reporter senza frontiere non solo riporta i dati raccolti nell’ultimo anno, ma conclude con un appello rivolto all’Onu per la creazione di una sezione speciale e la nomina di un rappresentante per la sicurezza dei giornalisti che svolga il compito di monitorare che gli stati membri delle Nazioni Unite rispettino il diritto internazionale sulla protezione dell’attività giornalistica.
All’indomani della seconda guerra mondiale, in seguito alla forte censura attuata dal governo nazista in Germania, fu necessario creare una legislazione internazionale per garantire la tutela della libertà d’espressione. Nella risoluzione n.59, stilata dall’Assemblea generale dell’Onu il 14 dicembre 1946, viene indicata la libertà di informazione come uno dei diritti fondamentali dell’uomo ai quali l’Onu è consacrata.
Due anni dopo, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea dell’Onu, afferma all’articolo 19 che “ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza rigurado a frontiere”.