
Una casa di bambola è il nuovo spettacolo di Andrée Ruth Shammah portato in scena al teatro Franco Parenti, di cui è anche direttrice. Il cast è composto da attori straordinari, tra i quali spiccano Filippo Timi e Marina Rocco. Il testo di partenza è Casa di bambola di Henrik Ibsen, scritto nel 1879, uno dei testi più rappresentati al mondo. Si tratta di un dramma borghese a tutti gli effetti, in cui emergono il conflitto tra il personaggio e l’ambiente che lo circonda, i valori imposti dalla società, la salvaguardia delle apparenze; ma allo stesso tempo se ne allontana per l’emergere di un altro conflitto molto forte, e cioè quello tra identità femminile e identità maschile, nel quale la prima sembra prevaricare per la prima volta la seconda. Per questo motivo Ibsen viene considerato uno dei primi drammaturghi a dar voce ai diritti delle donne e a mettere in discussione il ruolo dell’autorità maschile. Nora, protagonista del dramma, è l’emblema delle prime lotte femministe. All’epoca, i temi trattati in questo dramma furono considerati sconvenienti, tanto che era uso aggiungere come postilla nei cartoncini di invito agli eventi della famiglie scandinave altolocate: “Si prega di non parlare di Casa di Bambola“.
La regista però si discosta da questa interpretazione zero e decide di entrare negli anfratti del testo, molto più sofisticato di quello che può apparire: infatti Nora, interpretata da Marina Rocco, risulta essere un personaggio quasi borderline, che alterna atteggiamenti ingenui, accondiscendenti e frivoli a comportamenti decisi, scaltri e perfettamente architettati, tessendo quindi la trama di tutto il dramma e conducendo a suo piacimento i personaggi maschili che le ruotano intorno, tutti interpretati dal mattatore Filippo Timi: in primis Torvald Hemler, suo marito, che desidera che lei sia sincera, umile, ubbidiente e felice; dott. Rank, amico di famiglia di vecchia data, malato, malinconico e ironico, innamorato di Nora; infine avv. Krogstad, losco personaggio che ha dei conti in sospeso con Nora. La Shammah si concentra dunque sulle figure maschili che, essendo interpretate dallo stesso attore, risultano essere tre facce della stessa medaglia.
In questo modo il dramma ibseniano diventa un giallo labirintico, in cui bisogna capire chi è burattino e chi burattinaio.
Questa regia del testo si differenzia da tutte le precedenti, perché per la prima volta una regista donna decide di soffermarsi su questi temi, piuttosto che sul tema della ribellione femminile.
Emblematico in questa prospettiva è l’ultimo atto, quello risolutivo: il dott. Rank, poco prima di morire, confessa il suo amore segreto per Nora, e lei lo rifiuta in maniera dura ma civettante, come se in realtà fosse compiaciuta di aver sedotto qualcuno. Così al medico non resterà che rifugiarsi in casa da solo e lasciarsi morire in totale solitudine. Krogstad, inizialmente il meno candido della vicenda, sembra l’unico ad aver avuto un riscatto: decide di pentirsi e scappare con la signorina Linde, anche se viene da chiedersi se in realtà anche questo non sia solo un escamotage di Linde per salvare la reputazione dell’amica Nora. Infine Torvald, che tanto ha amato sua moglie, deve accettare la fine del suo matrimonio, perché lei ha capito che non è mai stata se stessa, e che deve realizzarsi come essere umano lontano dalla casa in cui ha vissuto per otto anni con il marito e con tre figli meravigliosi e per rispettare “i sacri doveri” che ha verso se stessa.
Quando Nora esce di casa per sempre, Torval la guarda allontarsi incredulo e si domanda: “Sono solo, ora?” con tono struggente e triste. Nessuna risposta arriva. Così esce sotto la neve e con voce flebile e malinconica intona una canzone e camminando a brevi passi strascicati si porta fuori scena. E le luci si spengono sul dramma umano della solitudine.