Del: 16 Febbraio 2016 Di: Maria C. Mancuso Commenti: 0

Maria C. Mancuso
@MariaC_Mancuso

Con l’entrata in vigore del regolamento CE n. 21/2001 del dicembre 2003 ogni allevatore negli Stati membri è obbligato a identificare il proprio gregge tramite un microchip elettronico. Non più sufficienti quindi il classico tatuaggio ad inchiostro o le marche auricolari con identificativo numerico o con codice a barre – mentre è in fase ancora sperimentale il riconoscimento mediante la mappatura del DNA.

Questo provvedimento si inserisce in un quadro più ampio che è esemplificato dal Regolamento CE 178/2002: la necessità di acquisire la fiducia dei consumatori, grazie ad un chiaro sistema di rintracciabilità, attuabile tramite documentazioni e sistemi di controllo. Questi ultimi permetterebbero di ricostruire e di seguire il percorso di un alimento, di un mangime o di un animale che verranno destinati alla produzione alimentare attraverso la produzione, la trasformazione e la distribuzione (se nella vostra testa risuonano i discorsi di un certo Farinetti, o di Coop, Slow Food, Expo & Compagnia bella non siete i soli).

Ma se in Italia può sembrare che l’obbligo del microchip non abbia destato grosse polemiche – per lo meno pubbliche – in Francia, patria della liberté (e, c’è chi dice, anche delle manifestazioni), dal 2010 ad oggi vi sono state numerosissime rimostranze, sono stati pubblicati libri e documentari e si sono persino mossi i sindacati.

La critica maggiore sollevata dai pastori francesi è l’obbligatorietà del chip elettronico, che è pure più costoso (sebbene in vari Paesi siano stati erogati fondi per l’acquisto). C’è chi si chiede poi se i microchip siano sostenibili e soprattutto dove vadano a finire una volta macellata la carne.

Data la forte dipendenza degli allevatori dai sussidi statali, molti si sono visti letteralmente ricattati dallo Stato: no chip, no money.

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I signori Mabille, ad esempio, proprietari di una sessantina di pecore e agricoltori biologici, hanno subìto una perdita di 12 000 euro a causa delle pesanti sanzioni (che ammontano a 8000) imposte loro per non aver identificato elettronicamente il gregge, oltre alla revoca del diritto ai sussidi, perché non più qualificati a goderne.

Ma un episodio di intransigenza contro chi si rifiuta di identificare è avvenuto anche in casa nostra, in Sicilia, dove nel novembre 2014 sono state trovate delle capre che pascolavano “abusivamente” sprovviste “sia di codici auricolari, sia di microchip elettronici” e perciòi caprini, alla presenza di Ufficiali di P.G. del Corpo Forestale Regione Siciliana e dei Medici Veterinari dall’A.S.P., sono stati abbattuti, le carcasse termodistrutte e i campanacci applicati ad alcuni di essi sono stati recuperati e sottoposti a sequestro penale”. 

Gli allevatori francesi scesi in piazza a manifestare contro questo obbligo chiedono a gran voce che il loro non venga reso un lavoro razionale e scientifico come quello degli operai in fabbrica e di non dover sottostare a regolamenti che favoriscono le grandi aziende dell’industria alimentare, che negli ultimi decenni hanno potuto ingrassare e spazzare via la concorrenza delle piccole aziende agricole, obbligate a chiudere perché impossibilitate ad osservare regolamenti troppo costosi e procedure sempre più industriali.

Il pastore, un tempo, aveva bisogno di un bastone e di un cane per guidare il proprio gregge. I tempi, però, sono cambiati e la tecnologia oggi riveste un ruolo importante anche nel settore dell’allevamento”. Questo è quanto si legge in un eloquente articolo apparso sul sito di Telecom Italia, a proposito di Luigi Farina, definito ‘il pastore hi-tech’.

En passant, ricordiamo il mega contratto da 500 milioni con il Ministero dell’Interno secondo cui dal 2003 Telecom Italia è fornitrice unica dei braccialetti elettronici per detenuti. 

Maria C. Mancuso
Scrive di agricoltura, ambiente e cibo. Mal sopporta chi usa gli anglicismi per darsi un tono.

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