Del: 18 Febbraio 2016 Di: Redazione Commenti: 1

Sara Tamborrino

Il regista teatrale Carmelo Rifici è una figura che, anche in virtù degli ultimi ruoli che ha ottenuto, sta assumendo sempre più rilievo nel panorama culturale contemporaneo. L’8 Maggio 2014 è stato nominato direttore artistico di LuganoInScena, che si occupa di organizzare la stagione teatrale della città, e nella primavera del 2015 è succeduto a Luca Ronconi alla direzione della Scuola del Piccolo Teatro di Milano, intitolata al suo predecessore.

La coproduzione del Gabbiano di Čechov, rappresentazione che ha debuttato a Lugano il 5 Novembre 2015 e successivamente andata in scena al Piccolo Teatro Studio Melato dal 12 al 24 Gennaio 2016, è lo spettacolo con il quale Rifici ha sancito l’inizio della promettente collaborazione tra le due realtà teatrali di cui egli è responsabile.

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Qual è stato il tuo percorso artistico?

Ho frequentato la Scuola del Teatro Stabile di Torino fondata da Luca Ronconi e mi sono laureato in Lettere Moderne alla Statale di Milano. Già durante gli anni di accademia avevo intuito che la mia vera vocazione non era fare l’attore. Mi interessava tutto quello che c’era dietro la costruzione di uno spettacolo piuttosto che andare in scena. Fortunatamente un lavoro su Victor Hugo che stavo provando con alcuni compagni di accademia fu scelto dall’allora direttore artistico Massimo Castri per un aiuto alla produzione. Subito dopo il diploma debuttai come regista. L’anno successivo vinsi il bando di residenza al Teatro Litta di Milano, dove feci tre regie che ebbero una grande visibilità. Ronconi mi scelse per un corso di perfezionamento al Centro Santa Cristina e con lui iniziai il mio vero apprendistato.

Cosa ti ha spinto ad intraprendere una carriera difficile come quella teatrale?

Un innato amore verso il teatro, verso la drammaturgia e la possibilità di utilizzarli per capire qualcosa in più su di me, sugli altri, sul mondo. Una necessità di stare in teatro.

Come sei arrivato ad occupare i ruoli che ricopri da nemmeno un anno?

A Lugano ho semplicemente partecipato al bando di direttore. L’ho vinto presentando un progetto di direzione che ha convinto la città. Per la Scuola del Piccolo credo che Sergio Escobar (Direttore del Piccolo Teatro di Milano ndr) abbia pensato che io potessi essere utile alla continuazione di un lavoro sugli attori e per gli attori, un lavoro di analisi del testo che ha sempre contraddistinto il Piccolo Teatro, una continuazione della grande lezione del teatro di regia, ma personale, diversa da quella di Ronconi, seppure rispettosa e grata.

Qual è stato il tuo impatto con le nuove responsabilità?

Sono stato sempre molto responsabile, quasi mai ho lasciato un cattivo ricordo di me dovunque io abbia lavorato. Questo l’ho imparato presto: lasciare di sé un bel ricordo. Cerco di lavorare bene, in maniera responsabile e autonoma, cerco di portare avanti e con coraggio certe scelte ed ipotesi, ma sto attento ai committenti, al pubblico al quale mi riferisco, al rapporto con i giovani, le scuole. Non ho un metodo, ma se dovessi provare a definire il mio modo di lavorare, direi che si tratta di un lavoro di relazioni, in un continuo dialogo con gli altri. Ma in fin dei conti la verità è che mi piace molto il mestiere che faccio.

Quale rapporto di continuità, confronto o ispirazione senti nei riguardi del tuo predecessore, Luca Ronconi? Quali differenze con il suo modus operandi?

Non saprei dire se c’è un rapporto di continuità con Ronconi, lui avrebbe detestato la sola parola. Inoltre lui era unico, lascia un buco incolmabile per ora. C’è un’idea di teatro etico, responsabile. C’è la forte propensione a pensare il teatro come un occhio sul mondo, ad usare il teatro come spazio della memoria e della conoscenza. Per il resto è un lavoro in divenire, che non pensa né alla continuità né alla differenza. Il lavoro del regista e del pedagogo si muove per ipotesi e intuizioni, non per modelli.

Come si sta sviluppando la collaborazione tra LuganoInScena e il Piccolo Teatro di Milano?

Tra Lugano e Milano si è creato una specie di protocollo di intese, di interessi comuni. C’è l’attività di coproduzione e di aiuto alle ospitalità internazionali. C’è una stima reciproca che ci porta a pensare a dei progetti comuni.

Quali obiettivi ti poni dalla tua nuova posizione?

Non mi pongo obiettivi. Detesto gli obiettivi.

Quali sono i tuoi futuri progetti?

Da una parte continuerò il mio lavoro sui classici, dall’altra la mia collaborazione con autori italiani viventi. Amo molto lavorare e dialogare con i drammaturghi italiani che trovo intelligenti, capaci e competenti, al di sopra della media europea. Il teatro italiano è ancora un teatro di profondità e di scavo, nessuno se ne accorge, viene sempre bistrattato da un’Europa mainstream, ma in realtà restiamo i più preparati. Il sistema culturale italiano non permette di mostrare questa preparazione, è un sistema assurdo e castrante – peccato -. In Francia e in Germania autori di poco conto diventano improvvisamente delle star, da noi non conti niente anche se sei bravo.

Cosa consigli a chi vorrebbe oggi intraprendere un percorso lavorativo simile al tuo?

Seguire sempre l’istinto e lavorare con impegno. Mettere da parte immediatamente vanità e carrierismi a favore di un lavoro serio, profondo. Bisogna scegliere la strada meno comoda, più impegnativa, frequentare scuole riconosciute, cercare di lavorare con chi è diverso senza pregiudizi o stupide ideologie. Bisogna essere aperti al mondo, studiare, imparare l’umiltà e avere una dose di diplomazia non indifferente. È un lavoro che si costruisce sulla pazienza e sulla generosità. Saper coltivare le proprie inquietudini senza che queste vanifichino lo sguardo oggettivo sugli altri. La cosa essenziale resta però la preparazione. Io consiglio ai registi di fare prima gli attori, di entrare in accademia come tali, perché solo così potranno realmente capire quali sono gli ostacoli ad una buona interpretazione. In Italia i migliori registi sono ex attori.

Ritieni che il mondo del teatro sia attualmente in crisi?

Il teatro è sempre in crisi. Il teatro è legato indissolubilmente alla crisi. Si potrebbe quasi ironicamente dire che il teatro e la crisi siano sinonimi.

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