Il pubblico ha accolto bene la prima puntata della fiction di Rai Uno, “Io non mi arrendo”, sulla vicenda di Roberto Mancini, il poliziotto della Criminalpol che fu tra i primi ad indagare sullo smaltimento illecito dei rifiuti nella “Terra dei Fuochi”.
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Roberto Mancini
La sua dedizione per la giustizia iniziò negli anni Settanta, quando entrò a far parte del collettivo studentesco del liceo Augusto di Roma.
Si unì ai movimenti studenteschi e venne alle mani con gli estremisti di destra, sognava la rivoluzione ma condannò sempre la lotta armata.
Le sue speranze di un cambiamento nella società furono cancellate dal sanguinario terrorismo, nero e rosso, degli anni di piombo, durante i quali Roberto si fece un’idea ancora più chiara dei personaggi politici deviati al potere in Italia.
Decise allora di entrare nella polizia, per cercare di cambiare il sistema dall’interno, unendo all’umiltà dell’agente semplice gli ideali politici che aveva abbracciato da ragazzo, perchè Roberto lavorava non tanto per la giustizia del codice, quanto per una giustizia sociale, per l’uguaglianza dei diritti.
Fu questo che lo spinse a concentrare le sue attenzioni sulla mala-gestione dei rifiuti, in quegli anni in cui il nord del mondo calpestava il sud, utilizzandolo come la propria pattumiera.
Il “poliziotto comunista”, come viene definito da un articolo de L’Espresso, iniziò a indagare praticamente da solo sui disastri ambientali della Terra dei Fuochi, anticipando di quasi vent’anni grandi inchieste.
Come ben reso dallo sceneggiato televisivo, all’epoca dei fatti il business dei rifiuti era del tutto sconosciuto e fu il boss pentito Nuzio Perrella ad aprire gli occhi agli investigatori, pronunciando la celebre frase: “Dottò, la munnezza è oro!”.
Questo crimine ecologico non venne concepito direttamente dalla camorra, ma fu “suggerito” ai boss dall’avvocato Cipriano Chianese, in seguito candidato in Parlamento con Forza Italia, frequentatore di quegli ambienti politici corrotti che Mancini odiava e contro i quali si scagliò fin da ragazzo.
Mancini effettuò sopralluoghi, ricerche, pedinamenti e portò alla luce gli sporchi legami tra la criminalità organizzata, l’imprenditoria, la massoneria e la politica, e già all’inizio degli anni novanta consegnò al proprio ufficio un’informativa contenente le direttrici principali del neonato fenomeno. Ma questa rimase totalmente ignorata per quasi dieci anni a causa dei giochi di potere degli ambienti giuridici e politici, che deviarono l’azione delle Forze dell’Ordine.
Solo nel 2000 Roberto Mancini fu contattato di persona da un magistrato del Tribunale di Napoli che fece espressa richiesta delle prove da lui raccolte per utilizzarle in un processo contro lo stesso Chianese, che nel frattempo, con l’aiuto della Camorra e con le autorizzazioni fornitegli dallo Stato, aveva messo in piedi una rete vastissima di discariche abusive.
Durante i sopralluoghi, Mancini contrasse un cancro, forse causato da scorie radioattive, che infine lo portò alla morte, avvenuta il 30 aprile 2014.
Il servizio che rese alla comunità gli fu riconosciuto solo una volta deceduto: fu insignito di una medaglia d’argento al valore civile, medaglia che aveva sempre sperato di non ricevere, perché la riteneva semplicemente un bollo con cui lo stato sigilla le bare dei personaggi scomodi, assieme a tutti i segreti che questi hanno scoperto.
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Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Natale De Grazia
Per l’Italia, gli anni Novanta furono un periodo di grande movimento: assieme a Roberto Mancini, altri uomini assetati di verità avevano iniziato a far luce sulla rete dei veleni e per questo, come Mancini, trovarono la morte.
Stiamo parlando di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i giornalisti di Rai Tre che stavano per pubblicare uno scoop sul traffico di armi e rifiuti tra l’Italia e la Somalia, e di Natale De Grazia, il capitano di corvetta che avrebbe rivelato come quella singola tratta fosse in realtà un piccolo corridoio di una gigantesca rete internazionale che si serviva delle cosiddette “navi a perdere” per lo smaltimento illecito dei rifiuti tossici e radioattivi.
Tutti e tre morirono in circostanze poco chiare: i due reporter furono assassinati a Mogadiscio (Somalia) il 20 marzo del 1994, in un presunto tentativo di sequestro finito male, mentre De Grazia ebbe un infarto il 13 dicembre 1995, proprio mentre si recava sotto copertura a La Spezia, una città che riteneva essere la chiave di volta nel caso delle navi dei veleni.
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La rete dei veleni oggi
L’emergenza nella Terra dei Fuochi è tutt’altro che terminata e le crisi dei rifiuti del 2008 e del 2010 ha mostrato quanto il sistema di gestione dell’immondizia del nostro paese sia ancora vulnerabile al potere decisionale delle ecomafie che continua a crescere.
Infatti, secondo il rapporto sulle ecomafie stilato nel 2015 da Legambiente, il business è in netta ripresa a partire dal 2012, mentre nel 2014 avrebbe toccato un nuovo picco di 21,4 miliardi di euro annui, di cui quasi 8 miliardi derivanti dagli appalti in opere pubbliche.
Tra i casi più sconcertanti ci sarebbe anche la recente costruzione (2014) dell’autostrada A35 (BreBeMi), che, secondo il procuratore distrettuale antimafia Roberto Pennisi, «È servita per interrare rifiuti».
A far scattare le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia di Brescia sono stati probabilmente alcuni elementi come il basso tasso di utilizzo dell’infrastruttura, la mancanza di offerta per il servizio di rifornimento carburante e la fonte dei finanziamenti, che inizialmente dovevano provenire da enti privati, mentre poi è stato utilizzato il denaro pubblico.
L’ipotesi degli investigatori è che i cantieri dell’A35 siano stati investiti da un crocevia di scarti industriali, come cianuri, fluoruri e bauxite, provenienti dai tratti ferroviari dell’Est e dai container trasportati per via navale attraverso l’Oceano indiano e il canale di Suez.
I lavori di costruzione della BreBeMi potrebbero anche essere stati coinvolti in un altro traffico illecito, quello dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE).
Inizialmente si pensava che gli elettrodomestici malfunzionanti venissero raccolti dalle comunità di migranti, i quali li avrebbero poi inoltrati ai loro paesi d’origine, dove qualcuno li avrebbe comunque utilizzati.
Si è poi scoperto che ad orchestrare i centri di stoccaggio abusivi e la rete di spedizioni era la criminalità organizzata, in particolare quella campana, che lucrava sui bisogni dei profughi e seppelliva in territorio italiano la merce non riciclabile.