Posted on: 25 Febbraio 2016 Posted by: Jacopo Musicco Comments: 0

Walls and barriers never worked in our life, especially now when, I’m afraid, most of them are mental barriers. So I hope to change this, because it’s not acceptable that people die crossing the sea.

Queste le parole scelte da Gianfranco Rosi per ritirare l’Orso d’oro alla Berlinale, il settimo vinto da un regista italiano al festival del cinema tedesco. Il riconoscimento assume un duplice valore: cinematografico, che premia lo sguardo sensibile di Rosi, e politico, che riconosce la drammaticità degli eventi legati alle migrazioni attraverso il Mar Mediterraneo.

È un passo importante, per l’Italia, ma ancor di più per l’Europa, che proprio dal suo cuore (Berlino) fa partire un grido d’aiuto nella speranza di smuovere gli sguardi, prima, e gli animi, poi, di coloro che nella sala buia sono costretti a confrontarsi con una verità scomoda ma necessaria.

La premiazione del film di Rosi si colloca in quella dimensione che potremmo definire la politica dei festival, tutte quelle scelte cioè che tendono a premiare una pellicola dai forti connotati politici (oltre che cinematografici), con l’obiettivo di avvicinare le coscienze degli spettatori a tematiche ormai masticate e rimasticate dai media d’assalto. In quest’ottica le realtà di riferimento sono proprio i festival del cinema europeo, dalla croisette di Cannes al lido veneziano, luoghi sociali in cui le giurie hanno sempre cercato di dare rilievo ai duplici valori di cui sopra.

Così era stato l’anno scorso, sempre a Berlino, per Taxi Teheran, con lo stesso direttore della Berlinale che a inizio cerimonia ricordava che «il nostro è un festival politico, nel senso che siamo consapevoli di quel che succede nel mondo». E ancora la Palma d’oro a La vita di Adele nel 2013 o il Leone d’oro a Lebanon nel 2009, sfruttando dunque quella breve finestra temporale concessa dai media di tutto il mondo per ricordare l’importanza che l’arte cinematografica può assumere: un’arte nata per raccontare la vita, nelle sue gioie, ma soprattutto nelle sue disgrazie.

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Spostandoci oltreoceano assistiamo invece ad un’inversione di carattere nei confronti del pensiero politico che spesso contraddistingue i festival europei. Se in Europa le premiazioni hanno lo scopo di riavvicinare il pubblico a tematiche altrimenti lontane, in America si ha la tendenza a nascondere i propri difetti socio-culturali, lasciando spazio quasi esclusivamente alla perfezione patinata targata Hollywood. E quindi un mix di redcarpet, vestiti, gossip, showbiz, divismo: un cocktail inebriante, ma dal sapore amaro.

Quest’anno però i membri dell’Academy hanno dovuto fronteggiare l’opinione pubblica, messi davanti all’evidenza degli #OscarSoWhite, ovvero la quasi totale assenza di afroamericani tra i nominati (senza contare le altre minoranze come latinoamericani o asiatici). I due esempi più citati sono Creed e Straight Outta Compton, due pellicole fortemente legate alla comunità afroamericana, che però hanno rispettivamente come candidati i sowhite Sylvester Stallone come attore non protagonista e Jonathan Hermann per la sceneggiatura; rendendo dunque quasi irrilevante la loro presenza alla notte delle statuette. Le proteste, scatenatasi sia sul web che tra i piani alti delle case di produzione, hanno fatto sì che si prendesse in considerazione l’idea di modificare le regole di votazione per i membri dell’Academy.

Regole a parte, il problema di fondo rimane la cecità dell’establishment verso la possibilità di conferire un valore politico, o perlomeno socioculturale, ai film premiati. Come scrive Richard Brody sul New Yorker:

It isn’t with well-meaning films that Hollywood can help; it’s with wide-ranging attention to good, boldly original, and challenging films—including ones that confront the unquestioned and enfeebled assumptions of artistic merit on which Hollywood itself currently runs.

Dunque accettare la sfida nel riconoscere un cinema coraggioso, che possa abbattere quelle barriere mentali citate da Gianfranco Rosi e (ri)partire dall’arte e dalla sua industria – e quindi dalla sua politica – per superare gli ostacoli sociali che imprigionano l’America.

Jacopo Musicco
“Conosco la vita, sono stato al cinema."

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