Del: 8 Febbraio 2016 Di: Stefano Colombo Commenti: 1

Per molti noi brianzoli, Milano è una liberazione. Quando ci iscriviamo all’università realizziamo che il senso di soffocamento provato per tutta l’adolescenza deriva direttamente dalla monotonia dei nostri paesi, provvisti solo di tre bar e due oratori. Allora cominciamo a salire ogni mattina su un treno stipato fino a scoppiare per Affori, per Cadorna, per la Centrale, e non ci sembra vero. Dev’essere stato così anche per Giuseppe Sala, quando iniziò a frequentare la Bocconi e vendette l’azienda di famiglia, appena ereditata, per stabilirsi a Milano. Sala ha 58 anni: suo padre era proprietario di uno dei tanti mobilifici che si possono trovare a Varedo, il primo paese della provincia di Monza per chi si allontana da Milano sulla via Comasina.

Quando gli ho stretto la mano mi sono trovato di fronte esattamente ciò che mi aspettavo, e non ho motivo di pensare che nei prossimi cinque anni mi farà cambiare idea.

Ho conosciuto moltissime persone come lui, così frequenti da incontrare nella bassa Brianza da sembrare replicate con uno stampino. In quel preciso momento ho avuto la netta sensazione di stringere la mano a un amico di mio padre.

Ero stato chiamato ad intervistarlo in un circolo Arci della Zona 8. Onestamente, non pensavo che quella sera si sarebbe presentato all’appuntamento. Io e il direttore di questo giornale eravamo stati invitati una settimana prima nello stesso circolo per intervistare Francesca Balzani, che all’ultimo minuto aveva disdetto l’incontro con una telefonata. Anche se forse ero così scettico perché in un posto simile, un soggetto come lui, non riuscivo nemmeno a immaginarmelo. Invece, anche se con un’ora di ritardo, è arrivato su una piccola Renault nera.

Il pubblico sembrava incredulo quanto me: poche volte ho visto una persona più fuori posto di lui quando è entrato dalla porta del circolo, presumibilmente senza tessera. Si è seduto in fretta sul piccolo palco, alla mia destra, e gli ho rivolto alla svelta la prima domanda — il tempo a disposizione era molto poco e il pubblico già scalpitava per porgli le sue. Che senso ha vendere quote di SEA, la società che gestisce gli aeroporti milanesi, per racimolare i soldi con cui ristrutturare le case popolari? Non possono essere ottenuti da qualche altra parte? Sul palco Sala si era ambientato un po’. Sembrava meno a disagio che negli istanti surreali del suo ingresso. Ha iniziato a parlare grintosamente, come se recitasse con un monologo a memoria, rivolgendosi molto più agli spettatori che a me: secondo lui il Comune poteva ben fare a meno di possedere SEA, doveva vendere per racimolare soldi da destinare a scopi utili – i soldi non vengono giù dalla pianta. Poi si è fatto prendere la mano: a cosa serve il palazzo di Via Larga? Coi soldi ricavati si possono riparare le case, per la gente è meglio. Perché non vendere anche quello?

Mentre parlava rivolto verso il pubblico, ogni tanto si girava verso di me, sorridendo con una faccia sciupata dalla lunga giornata di campagna elettorale, e mi dava una pacca paterna sulla spalla. Probabilmente pensava che fossi un giovane iscritto al circolo e dunque di doversi conquistare anche il mio voto. Questa confidenza mi metteva un po’ a disagio, eppure sentivo che avevamo dei punti in comune. Una vicinanza di cui mi ero reso conto subito, ancora prima di scambiare con lui le prime battute: dal momento stesso in cui gli avevo stretto la mano. In effetti, io e Sala eravamo qualcosa in comune che ci distingueva dalle altre persone in quel circolo, dove tutti venivano dalla periferia di Milano o appena oltre il confine comunale, da Baranzate: eravamo gli unici presenti a venire dalla provincia. Varedo, il paese di Sala, non ha direttamente a che fare con la città, così come il mio. Spesso noi della nostra zona lavoriamo a Milano raggiungendola ogni giorno in treno, ma i nostri paesi non sono sincronizzati con lei, e nemmeno i loro abitanti. Sala ha vissuto per decenni a Milano, ha accumulato potere e rispetto, ma quella sera mi sembrava di stare sul palco con con un mio compaesano fatto e finito, non con una persona prossima a diventare sindaco di una grande città.

sala

Non saprei nemmeno spiegare il perché di questa vicinanza nei suoi particolari. Un certo modo di porsi, l’accento. Avrei visto meglio Sala seduto a una cena del circolo del tennis di Varedo, più che a una riunione del PD milanese. Una di quelle cene al ristorante buono in cui tutti si conoscono da quando frequentavano l’oratorio ma si chiamano bonariamente per cognome — Carimati, Vaghi, Mariani — e portano con loro i figli che hanno appena iniziato a prendere in mano una racchetta. Persone benestanti ma nemmeno troppo, con una piccola impresa e venti dipendenti sulle spalle che mandano avanti da trent’anni allo stesso modo, blandamente berlusconiani fino al 2011 e indecisi se iscrivere la prole alle scuole pubbliche o dalle suore. Sono stato un bambino tennista anche io, seduto a cena più volte con molti di loro. E ho osservato che sono brave persone, estremamente sicure di sé e dei propri mezzi, con una certezza: la fede nella loro versione di liberismo economico, che garantisce il loro benessere e la loro sicurezza.

La mia faccia mentre Sala provava a rabbonire il pubblico era cortese ma scettica. No: secondo me non è una buona idea vendere quote di SEA, dato che è uno degli asset pubblici più importanti in mano al comune e che oltretutto è in attivo, fa entrare soldi nelle casse municipali. Sala non era d’accordo: perché la maggior parte delle altre città non ha una partecipazione così importante nella gestione degli aeroporti? Abbiamo iniziato a discutere, fino a un momento che non dimenticherò mai.

Giuseppe Sala fa una pausa, come se si fosse reso conto all’improvviso di qualcosa. Poi mi appoggia — ancora — una mano sulla spalla, mi guarda sinceramente incuriosito negli occhi e mi domanda:

“Tu sei liberista, o no?”

“No.”

Mi da un’ultima pacca sulla spalla, poi toglie la mano, con un po’ di dispiacere nella sua espressione.

Io credo che in quel momento fosse sinceramente dispiaciuto. Pensava che fossi un povero ingenuo, l’ennesimo ragazzino che ha frequentato troppi amici troppo di sinistra senza sapere come va davvero il mondo, convinto che per fare il sindaco non serva tanto una preparazione aziendale quanto una politica. Il pubblico aveva riso, ma la tensione tra la maggior parte dei presenti e Sala era palpabile. In quella sede non si giocava il dibattito tra due correnti di un partito, ma tra una visione tecnica e provinciale dell’amministrazione — sul pieno della cresta dell’onda — contro una visione della società e della politica generosa ma sfilacciata e stanca. Credo che Sala sia in buona fede: è convinto, come molti della sua classe sociale, di avere le risposte giuste alle domande che la situazione economica e politica pone a un sindaco, e le competenze per metterle in pratica. Crede che il liberismo economico sia davvero un modo per rendere più efficiente la società — mi spingo a dire, è sincero perfino quando dice di essere di sinistra: i benefici echi della politica liberista, secondo lui, gioverebbero anche alle classi sociali più svantaggiate. E tanto gli basta.

Ma questo liberismo provinciale potrà funzionare e risultare vincente nella gestione di piccoli comuni e anche di grandi aziende, visti i risultati professionali di Sala, ma rischia di essere pericoloso e fallimentare se applicato a una città come Milano, i cui conti da far tornare non sono solo quelli in fondo al libro mastro. Il caso della SEA è un buon esempio di come un’amministrazione Sala peccherebbe di superficialità. Proporre di vendere asset tra i più importanti e solidi del comune per un beneficio immediato – per quanto lo scopo, almeno quello dichiarato, sia nobile – dimostra scarsa lungimiranza e una linea politica piuttosto raffazzonata, un liberismo da fabbrichetta. Quando tra cinque anni ci saranno da restaurare altri tremila alloggi, cosa proporrà Sala nella prossima campagna elettorale? Di vendere il Castello Sforzesco? Ci sono scenari in città che Sala non conosce e che dunque affronta in modo sommario, come le periferie. Quando pensa alla parola periferia, la mente di Sala vola alla parola sicurezza. Gli ho chiesto perché avesse messo la parola “sicurezza addirittura al primo posto sui manifestini che mi erano capitati sottomano e lui mi ha risposto, questa volta con la massima calma, che per lui è una materia fondamentale: sicurezza sono “telecamere, uomini in strada, mezzi”. Questa è una visione di destra ma anche provinciale, di una persona che non ha idea di cosa sia la vita per la maggior parte dei cittadini residenti fuori dalla Zona 1. L’amministrazione Sala sarebbe quella che propone di aprire i navigli per rilanciare Milano come città d’avanguardia, mentre poi blocca la costruzione di nuove metro: la scorsa giunta aveva approvato un piano guida per realizzare una sesta linea da mettere in cantiere nei prossimi dieci anni. Sala, durante il nostro incontro, ha detto che non è interessato a questo impegno. È questo che intendo per liberismo provinciale: un misto di miopia politica e egoismo economico coagulati in una retorica dell’efficienza irritante e contraddittoria – la stessa che portava a elogiare le code assurde ai padiglioni dell’Expo.

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L’incontro è durato più del previsto. Nonostante il suo assistente si sbracciasse da un lato del palco per far spostare il candidato all’appuntamento elettorale successivo, Sala sembrava godersi un mondo il battibecco con me e il pubblico del Circolo Arci – almeno finché un vecchio militante dalla barba appuntita gli ha tirato una frecciata sul suo passato di tecnico sotto la giunta Moratti, che l’ha fatto arrabbiare cosi tanto da farlo mettere a gridare contro queste provocazioni: basta! Alla fine, come era arrivato, mi ha stretto la mano e se n’è andato, attraversando la sala avvolto nella stessa improbabilità con cui era entrato.

A me l’idea dei navigli aperti non dispiace. Non sono liberista, ma temo che rimarrò provinciale ancora per un po’.

Stefano Colombo
Studente, non giornalista, milanese arioso.

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