
Sheila Khan
@shei_sk
Esattamente un anno fa ci lasciava Luca Ronconi, uno dei registi che maggiormente hanno segnato la storia del teatro a Milano e della regia in Italia.
La sua carriera inizia nel 1953, quando si diploma come attore all’Accademia nazionale d’arte drammatica (ora Silvio D’Amico) a Roma. Viene subito notato per la sue capacità attoriali, tanto che reciterà in Tre quarti di luna diretto da Luigi Squarzina e Vittorio Gassman.
La vera svolta però avviene con la sua partecipazione al convegno “Per un nuovo teatro”, organizzato a Ivrea nel 1967. In questo contesto attori e registi si trovano per rifondare il teatro e affrancarsi dalla regia di prima generazione e dai teatri stabili, accusati di aver fallito la missione di allargare il pubblico e avvicinare gli spettatori.
Ronconi entra nel vivo della discussione ed entra a far parte di diritto della seconda generazione di registi, che pretendono una rivalutazione della messinscena a partire dai codici teatrali, che non devono più essere a servizio del testo, ma compresenti e complementari ad esso. Inoltre in questo frangente nasce e si sviluppa l’idea del teatro collettivo, la cui partitura scenica non è guidata dal regista, ma da un gruppo di attori insieme al regista.
Da questa nuova concezione del teatro nasce nel 1969 Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, con la trasposizione di Edoardo Sanguineti. Lo spettacolo debutta il 4 luglio al Festival dei Due mondi di Spoleto nella chiesa sconsacrata di San Nicolò e si distingue subito per l’impianto scenografico, lo svolgimento narrativo e il numero degli attori: sui lati corti della ex chiesa infatti erano posti due palchetti che rappresentavano il palazzo di Carlo Magno e la reggia di Atlante; lo spazio tra i due palchi era occupato dagli spettatori e dagli attori che rappresentavano altre vicende che accadevano parallelamente a quelle svolte sui palchetti.
In questo modo si otteneva una totale rottura della quarta parete e il pubblico poteva decidere deliberatamente quali vicende seguire più da vicino.
La riscrittura di Sanguineti infatti prevede lo svolgimento di tre filoni tematici che vengono rappresentati contemporaneamente, così che lo spettatore non può avere una visione totale dello spettacolo, ma solo parziale. Franco Quadri scrisse a proposito: “Lo spettatore fondamentalmente si trova […] davanti a due scelte: o partecipa al gioco che gli proponiamo, o si mette in disparte e sta a guardare. E in questo caso si annoierà, perché, ripeto, lo spettacolo va vissuto, non certo visto e giudicato. Se, al contrario, lo spettatore entra nel gioco potrà, immediatamente, essere parte viva, attiva di esso”.
A questa regia seguirono altri spettacoli-evento che si possono inserire nel quadro del teatro sperimentale, termine che negli anni Settanta e Ottanta aveva un significato ben diverso da quello odierno. A questo periodo risalgono XX (1971), Caterina di Hellbron di Kleist (1972) e l’Orestea di Eschilo (1972).
Dopo queste prime esperienze di grande successo e riconoscimento, anche all’estero, Ronconi prende parte al Laboratorio di progettazione teatrale di Prato (1975), significativo e necessario per le sue messinscene successive, in particolare per le Baccanti di Euripide (1978), nate grazie ad uno studio svolto proprio durante il laboratorio. Dal 1986 al 1994 è direttore artistico del Teatro Stabile di Torino, per il quale realizza il memorabile e colossale Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus (1990), messo in scena al Lingotto di Torino. Dal 1994 al 1999 è direttore del Teatro Stabile di Roma. Dopo la morte di Giorgio Strehler approda infine al Piccolo Teatro di Milano, dove decide di organizzare il cartellone su due filoni: classici della letteratura teatrale e adattamenti di testi non teatrali. Emblematici in questo senso sono Infinities di John Barrow (2003), messinscena di un testo scientifico che spiega i paradossi della matematica e Il ventaglio di Carlo Goldoni (2007). Negli anni successivi di permanenza al Piccolo la regia di Ronconi raggiunge una nuova maturità, caratterizzata da un’attenzione ancora più maniacale per i testi e la loro riscrittura e dalla realizzazione di scenografie sempre più evocative e meno descrittive.
Probabilmente questo suo percorso artistico avrebbe potuto evolversi ancora per molto, data la poliedricità della mente creativa di Ronconi, se non fosse stato spezzato dalla morte, sopraggiunta nella sera di sabato 21 febbraio al Policlinico di Milano, in seguito alle complicazioni di una polmonite. Il regista aveva 81 anni. Proprio in quei giorni andavano in scena al Piccolo le repliche di Lehman Trilogy, la sua ultima regia.
La morte di Ronconi ha lasciato un vuoto incolmabile nel mondo del teatro, sia tra gli addetti ai lavori sia tra gli spettatori. La scuola di recitazione del Piccolo Teatro è stata intitolata a lui sotto proposta di Sergio Escobar e Carmelo Rifici, il nuovo direttore (che abbiamo intervistato pochi giorni fa). Sempre al Piccolo Teatro è stato inaugurato Rovello Due, uno spazio multimediale espositivo che fino al 17 marzo ospiterà la mostra Spazio, Tempo, Parola, mostra antologica sul lavoro di Ronconi corredata da clip audio, filmati e foto di scena, particolarmente interessante per gli studiosi e appassionati di teatro più giovani che non hanno avuto modo di vedere dal vivo le sue prime regie. Infine l’intera programmazione di Rai5 di oggi sarà dedicata ai suoi lavori (qui il palinsesto).
Il lascito artistico di Luca Ronconi è incommensurabile: a lui va il merito di aver portato in Italia una ventata di innovazione seguendo l’esempio del teatro sperimentale europeo e di aver portato a Milano un teatro di alta levatura e qualità registica indiscutibile. Per questo e altri infiniti motivi, lo ricordiamo e lo ringraziamo.