
Seconda metà dell’Ottocento. La Chiesa e le monarchie europee cercano di recuperare l’equilibrio dell’Occidente ponendo l’accento sui valori tradizionali e conservatori di Antico Regime.
In questo contesto, in parte dovuto alla restaurazione post-napoleonica, la donna viene da un lato considerata portavoce di un destino assegnatole da Dio e dall’altro questo stesso destino è strettamente legato e subordinato all’uomo.
La mentalità del tempo è difficilmente penetrabile e anche i maggiori pensatori restano intrappolati nella concezione che relega la donna alle sue naturali mansioni, ovviamente legate alla famiglia.
Gli uomini e le donne vengono considerati diversi anche da un punto di vista strettamente biologico ed è infatti da un neologismo medico che nel 1870 nasce in Francia la parola femminismo. Viene inizialmente usato per indicare la patologia propria di alcuni uomini che non avevano ancora sviluppato la loro virilità in età adulta. Due anni dopo il termine verrà utilizzato da Alexandre Dumas figlio per indicare i primi moti femministi in Francia.
Entro la fine dell’Ottocento tutti i Paesi europei partecipano alla causa femminista.
In Inghilterra grandi personalità come John Stuart Mill si fanno portavoce del movimento che dal 1869 prende il nome di movimento delle suffragette. L’Inghilterra concede diritto di voto alle donne il 2 luglio 1928.
Ma in Italia, queste prime spinte verso l’acquisizione dei diritti basilari da parte delle donne vengono ostacolate e le neonate organizzazioni si trasformano in breve tempo in nuove organizzazioni religiose come le Marcelline, riconfermando l’ideologia conservatrice che accomunava monarchia e Chiesa.
Un grande lavoro di diffusione delle nuove idee femministe viene svolto nell’ultimo ventennio dell’Ottocento tramite riviste quali La donna, che si pongono come vetrina nella quale vengono esposti casi di cronaca specifici sulla condizione femminile in Italia. Un esempio concreto è il caso di Lidia Poët, la prima donna laureata in legge, alla quale l’Ordine degli Avvocati di Torino voleva negare l’iscrizione, nel 1883.
Il femminismo italiano inizia a prendere forma lentamente e al suo interno si scindono due correnti differenti. Da un lato c’è un ramo rappresentato da Anna Kulishoff, militante socialista che pone l’accento sui diritti della donna lavoratrice e operaia. Dall’altro lato si delinea una nuova corrente che considerava la donna all’interno di un problema sociale più ampia e trasversale a tutte le classi sociali e al quale bisognava far fronte unite.
La figura di riferimento di questa seconda corrente è Anna Maria Mozzoni, figlia di proprietari terrieri del milanese di nobili origini. Cresce leggendo i grandi pensatori dell’Illuminismo come Charles Faurier che nella Teoria dei quattro movimenti del 1808 sosteneva che “l’estensione dei diritti delle donne è principio basilare del progresso sociale”.
Il primo saggio di Anna Maria Mozzoni esce nel 1864 con il titolo La donna e i suoi rapporti sociali, che si tradurrà negli anni successivi nell’impegno politico per la causa femminista: un lungo lavoro sul “risorgimento della donna”.
Nel primo capitolo polemizza con le teorie di Pierre Joseph Proudhon che sostenevano che “affinché il tipo femminile conservi le sue grazie ed i suoi vezzi, deve la donna accettare la potestà maritale” e con Jules Michelet che considerava la donna “fatta dall’uomo e per l’uomo”. Continua la Mozzoni: “Dolente di vederla sofferente e malata (la donna di Michelet è sempre malata), egli vede la necessità d’isolarla, di custodirla, di medicarla. Bambina, non conoscerà che le sue poppattole; maritata, non vedrà che il marito ed i figli; vedova, gl’infermi e gli orfanelli. E di coltura? Non se ne parla. Il sapere la invecchia. E di lavoro? Nessuno. Si romperebbe tutta. D’altronde la manutenzione della cosa, tocca al proprietario della cosa. E di funzioni? Non ne è questione. La donna di Michelet, è una donna che adora suo marito, che è fatta da lui, che vive per lui, per lui solo, e che finisce poi probabilmente per morire di congestione al cuore in seguito ad una serie di emozioni tenere troppo frequenti.”
Grazie all’impegno di questa donna che ha dedicato tutta la sua vita alla causa femminista, l’Ottocento si conclude con la nascita di importanti organizzazioni pro suffragio: a Roma nel 1897 nasce l’Associazione nazionale per le donne, nel 1899 a Milano nasce l’Unione femminile nazionale e nel 1903 il Consiglio nazionale delle donne italiane.
Un passo fondamentale verso il suffragio femminile viene compiuto grazie alla petizione che Anna Maria Mozzoni presenta in Parlamento, prima nel 1877 e poi nel 1906.
Nel 1909 l’Alleanza pro suffragio porta in Parlamento un Manifesto di protesta che affiancava alla condizione femminile quella degli analfabeti, un’altra minoranza alla quale non era riconosciuto il diritto di voto. Ma quando Filippo Turati presenta l’emendamento, il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti lo definisce “un salto nel buio” e solo gli analfabeti ottengono il suffragio.
Con la Prima guerra mondiale la donna sostituisce l’uomo nelle fabbriche e il profilo della donna lavoratrice si fa sempre più diffuso, spazzando via quello della donna “angelo del focolare”.
- Il decreto per il suffragio viene di nuovo portato alle Camere, ma il Senato non lo approva e la legge non passa. Un anno dopo Anna Maria Mozzoni muore al Policlinico di Roma. La sua lotta non è però stata vana e ha dato inizio al lungo iter burocratico verso il suffragio femminile.
Nel 1923 Mussolini approva la legge per il voto alle donne nelle elezioni amministrative. Ma è di fatto una bieca manovra politica, nonché una conquista illusoria: possono votare solo le donne maggiori di 25 anni, con l’istruzione elementare, o con figli caduti in guerra o con la patria potestà. Oltre a essere una concessione molto restrittiva, nella retorica fascista il voto femminile era diventato un premio all’impegno della donna che aveva sostenuto il marito o i figli durante la guerra e che dunque aveva permesso la loro presenza al fronte. ”La maternità alla donna, la guerra all’uomo” recitavano gli slogan fascisti che invitavano le donne a “far molti figli per dare soldati alla patria” nello stesso periodo in cui il nuovo Diritto di famiglia istituiva il delitto d’onore (l’uomo tradito poteva farsi giustizia da solo).
Torna quindi quell’ideologia conservatrice e maschilista che suonava vecchia già durante la Restaurazione. Due anni dopo le elezioni amministrative vengono abolite. Stava iniziando la dittatura, e per le organizzazioni femministe, che si trovano con in mano nulla di fatto, iniziavano i tempi più bui.
Solo il 30 gennaio 1945 con il Paese ancora in guerra viene approvato il decreto legge De Gasperi-Togliatti per il suffragio universale (tutti i cittadini che avessero compiuto 21 anni potevano votare) e così le donne votano per la prima volta esattamente settant’anni fa, il 10 marzo del 1946 per le elezioni amministrative e poco dopo, il 2 giugno tornano alle urne per il Referendum monarchia-repubblica.