Sara Tamborrino
Allo Spazio Tertulliano vanno in scena fino al 20 Marzo le repliche della nuova produzione della Compagnia Facchetti-De Pascalis, La confessione di Agostino, testo e regia di Gianfelice Facchetti. La genesi dell’opera risale a uno scambio di lettere tra l’autore e un internato in una casa-lavoro, nato da una lettera del secondo pubblicata sulla Gazzetta dello Sport in cui rivocava i momenti felici di quando, da bambino, suo padre lo portava a vedere le partite della grande Inter capitanata da Giacinto Facchetti, padre del regista. Quest’ultimo, sentitosi tirato in causa, lo ha contattato, e ne è nato uno scambio umano che ha portato alla confessione di una vita.
La storia, narrata in prima persona in forma di monologo, è quella di Agostino, interpretato da un sempre magistrale Claudio Orlandini; un uomo che dopo aver scontato la sua pena in carcere viene internato in una casa-lavoro a causa della pericolosità sociale attribuitagli per la natura recidiva dei suoi crimini. La sua discesa verso la delinquenza prende avvio quando, adolescente, inizia a scommettere sulle corse dei cavalli fino a diventarne dipendente. Per provare a salvare se stesso dalla rovina decide di intraprendere una strada opposta e diviene agente di polizia. Durante i festeggiamenti per la sua prima promozione però gli si presenta un’altra tentazione: conosce il gioco d’azzardo e cade preda delle lusinghe del tavolo verde. Il tentativo di resistere al nuovo vizio gli provoca una crisi, dovuta all’astinenza, diagnosticatagli come sindrome ansioso depressiva; viene scartato dal corpo di polizia. Inizia così a svolgere una serie di lavori saltuari per pagarsi il gioco, fino alla caduta finale che lo vede rapinatore improvvisato per disperazione. Ad una prima pena scontata in carcere ne segue poi un’altra dovuta alle nuove rapine commesse per poter frequentare il casinò durante la semilibertà.
Nonostante, dopo anni di galera, il suo debito con la giustizia sia stato pagato, ciò che nega ad Agostino la possibilità di tornare libero è la difficoltà costituita dal suo reinserimento sociale, impedito dal non possedere una casa, un lavoro, nessuno che possa prenderselo a carico. Non più i suoi crimini, dunque, ma la sua condizione di nullatenente è ciò che gli pregiudica la libertà imprigionandolo in un limbo chiamato “carcere bianco”, ossia la situazione di chi viene internato in una casa-lavoro nella quale per contraddizione il lavoro manca; non avendo la possibilità di riscattarsi si rimane così invischiati in una forma di carcerazione attenuata reiterabile all’infinito, che si traduce in un ergastolo a pena già scontata.
Questa vicenda ha catturato la sensibilità creativa di Facchetti. “Mi affascinava dal punto di vista teatrale la trasposizione della storia di un uomo, un poliziotto, rovinato dal gioco d’azzardo fino a diventare un rapinatore seriale.” Il tema della realtà detentiva italiana è da sempre caro all’autore, che si è speso in quest’ambito attraverso esperienze come l’organizzazione di laboratori teatrali nelle carceri, prima a Bollate e poi nella Casa Circondariale di Monza.
Affrontando una tematica a molti sconosciuta e raccontando un criterio detentivo che va a ledere i diritti umani attraverso un residuato di misure penali che, previste dal Codice Rocco del 1930, risalgono al periodo fascista, lo spettacolo ha ottenuto il patrocinio di Amnesty International Italia e dell’Associazione Antigone “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”.
Lo spazio scenico è scarnamente allestito in modo da restituire efficacemente l’atmosfera di una cella, scura, le pareti spoglie, priva di qualunque arredamento ad eccezione di un baule che contiene il passato di Agostino. Per ogni capitolo della propria vita, infatti, ne estrae un abito adatto a raccontarlo, come una giacca di pelle per l’adolescenza o la divisa da agente per il periodo in polizia, o i vestiti di donne che richiamano alla memoria gli amori di un tempo. Particolarmente interessante il fatto che la vita libera sia ripercorsa attraverso una varietà di capi d’abbigliamento in spiccata contrapposizione con la fissità dei vestiti da internato.
I diversi momenti della narrazione sono ulteriormente scanditi da Raffaele Kohler, che con la sua tromba esegue la musica direttamente in scena. È vestito da agente, un muto secondino che in fondo sembra condividere la condizione di isolamento dell’internato che sorveglia, soltanto recluso dall’altra parte delle sbarre.
La partecipazione emotiva dello spettatore rispetto alla sofferenza di Agostino è sollecitata dalla vivace passionalità del personaggio. La disperazione estrema che lo ha fatto precipitare nella delinquenza denuncia una realtà umana che va ben al di là di una distinzione netta tra bene e male — non basta scegliere di fare la guardia per paura di diventare ladro, la realtà con cui Agostino si trova a fare i conti è infinitamente più complessa, talmente piena di sfumature da rendere difficile pronunciare un giudizio di piena condanna o assoluzione. Vi è poi la rabbia che quest’uomo grida nei confronti di un sistema che lo rende totalmente dipendente da altri. È il sentimento di insofferenza che gli permette di rimanere vivo in mezzo a tanti sguardi spenti di detenuti privi di speranza. Proprio quest’ultima è la forza di Agostino, che pur cosciente della propria disgraziata situazione prende commiato dal pubblico andando incontro alla notte sperando che essa porti con sé un sogno di libertà nel quale librarsi in volo come una mosca oltre le sbarre; un’eterea via di fuga che nonostante tutto lascia però aperto uno spiraglio, per chi non vuole arrendersi all’affermazione che compare nell’opera con un’eco di minaccia: “se ti perdi, tuo danno”.