Era la mezzanotte del 12 dicembre 1995 quando Natale de Grazia moriva misteriosamente a bordo della Fiat Tipo che avrebbe dovuto portarlo a La Spezia.
L’autopsia, chiesta per due volte dalla famiglia, e assegnata dalla commissione d’inchiesta sempre allo stesso medico legale, indicherà che la morte del capitano di corvetta, appena trentottenne, fu dovuta a un malore.
Invece no.
È stato il veleno, una sostanza probabilmente incolore e inodore, ben diversa da quella che i suoi assassini erano soliti sversare nel Mediterraneo, putrida e fluorescente, la cui scia maleodorante non era certo sfuggita al fiuto del capitano.
Come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Natale De Grazia è stato assassinato perché aveva le capacità e la perseveranza necessarie a individuare e sradicare ogni tentacolo del mostro cui dava la caccia.
“Natale era un grande idealista,” lo ricorda la moglie, “Pensava che il mare dovesse essere salvaguardato come un tesoro per le prossime generazioni. Fin da piccolo disegnava le barche e sognava di diventare capitano di lungo corso, tanto che si iscrisse all’istituto nautico contro la volontà della madre. Era un uomo umile, che amava il prossimo e amava la vita.”
Si era esercitato in Libano con le forze speciali della Marina Italiana e aveva totale dimestichezza con le mappe nautiche, i registri di bordo e in generale con tutto l’ambiente marittimo.
Si dice che avesse un’infallibile fiuto per qualunque vicenda che riguardasse il mare: se la documentazione navale era contraffatta o se un marinaio mentiva, Natale se ne accorgeva immediatamente.
Del suo talento si accorse ben presto Francesco Neri, sostituto procuratore della repubblica di Reggio Calabria, che lo volle a capo del pool investigativo da lui fondato per far luce sul cosiddetto caso delle “Navi dei veleni”, il cui nome deriva da un famoso esposto di Legambiente, presentato alla magistratura nel giugno 1995.
I vertici del cigno verde supponevano l’esistenza di un traffico internazionale tale per cui, i governi dei paesi industrializzati e alcuni imprenditori senza scrupoli si appoggiassero a organizzazioni criminali o terroriste per smaltire illegalmente i rifiuti industriali nei suoli o nei mari di paesi sottosviluppati, che venivano ripagati con carichi di armi o ingenti somme di denaro.
In particolare, si ipotizzava che i rifiuti chimici e radioattivi venissero cementati all’interno di grossi container, poi stipati a bordo di vecchi mercantili, e infine inabissati, simulando il naufragio dell’intera imbarcazione – un metodo che rendeva possibile anche riscuotere il premio dell’assicurazione – “navi a perdere”, per l’appunto.
Una mappa interattiva mostra i punti in cui sarebbero avvenuti i naufragi. Secondo i dati più recenti, le navi a dei veleni colate a picco nel Mediterraneo sarebbero più di settanta.
A capo del pool di Reggio Calabria, l’intuito e l’abilità di De Grazia si rivelarono straordinari fin da subito: in poco meno di un anno, il capitano riuscì ad analizzare e ricostruire le dinamiche di circa 180 manovre e affondamenti sospetti, anche quando la relativa documentazione risultava carente o del tutto assente.
Proprio le numerose lacune e imprecisioni nei registri degli armatori, delle dogane e delle capitanerie di porto, facevano presagire a Natale l’esistenza di una gigantesca rete di autorità deviate in grado di controllare tutti gli enti nautici del Mediterraneo allo scopo di coprire e tutelare il business delle navi a perdere.
I suoi timori trovarono conferma quando, nel novembre del 1995, guidò il corpo forestale del comandante Rino Martini nella perquisizione di una villa a San Bovio di Garlasco (PV), rivelando per intero ciò che in seguito fu definito “l’abisso nucleare”.
All’interno della tenuta, appartenente al misterioso Ingegnere Giorgio Comerio, furono ritrovati più di trenta faldoni contenenti la documentazione dei paesi che avevano concesso il proprio territorio per lo sversamento di rifiuti tossici.
Tra le prove schiaccianti, dei VHS che illustrano il sistema per ancorare le scorie al fondale, una mappa nautica identica a quella ritrovata a bordo della celebre motonave Rosso e un’agenda del 1987 riportante la scritta “Lost the ship” proprio sulla pagina del 21 settembre.
In quella data era affondata la Rigel, definita dagli investigatori come “la madre di tutte le navi a perdere”, sospettata di aver trascinato con sé in fondo allo Ionio più di 300 bidoni di uranio e plutonio additivati.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, giornalista e cameraman per Rai Tre, assassinati a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Avevano scoperto un traffico clandestino di armi e rifiuti tra la Somalia e il governo Craxi.
Si può immaginare l’impatto che una scoperta del genere ebbe sul capitano di corvetta, un idealista, un uomo appassionato al mare e alla vita.
“Quando mi disse di questa indagine era notte”, ha raccontato la moglie, “eravamo da soli, ma parlava piano e aveva paura che anche i muri lo ascoltassero. Era una cosa riservata che non si doveva sapere, una cosa che lo sconvolgeva.”
“Era diventato quasi ossessionato. Era impossibile fargli cambiare idea, non si lasciava convincere o condizionare. Doveva venire a capo di questa vicenda e non si sarebbe mai fermato”.
Nel dicembre del ’95 le indagini subiscono una svolta: un pentito della ‘Ndrangheta rivela che la nave Latvia, ormeggiata al molo 7 di La Spezia, sta per salpare con un carico di scorie radioattive, pronto per essere inabissato.
È l’occasione buona per prendere armatori e manovali con le mani nel sacco, utilizzare le loro informazioni per risalire a tutta la rete criminale e poi usarli come testimoni in tribunale.
Speranzosi di sventare lo scempio e arrestare i colpevoli, gli uomini di Neri saltano a bordo della Tipo e imboccano la Salerno-Reggio Calabria a tutta velocità, ma è una trappola.
Quando gli agenti si fermano per cena a un ristorante di Nocera Inferiore (SA), qualcuno versa del veleno nelle pietanze destinate a De Grazia, che di lì a poche ore morirà (il locale sarà costretto a chiudere alcuni mesi dopo).
Per far luce sull’accaduto viene aperta un’inchiesta, che però incontra mille difficoltà: i documenti di interesse spariscono dagli archivi delle procure e Francesco Neri viene messo sotto inchiesta per ordine dell’onorevole Carlo Taormina, l’avvocato che nel 2014 ebbe una pesante lite con Roberto Saviano sulla dinamica dell’omicidio Alpi-Hrovatin.
I magistrati e le autorità che indagavano sulle navi dei veleni vengono pedinati, altri vengono sollevati dell’incarico, altri ancora ricevono un miglior impiego e la ricostruzione dei fatti diventa sempre più difficile, così che, il 7 gennaio 2009, il giudice Francesco Greco della repubblica di Paola, chiede e ottiene l’archiviazione del caso.
Solo qualche mese dopo, nel settembre 2009, Francesco Fonti, un boss pentito della ‘Ndrangheta inizia a parlare, e racconta di come lui e altri criminali abbiano affondato nel Mediterraneo più di cinquanta navi imbottite di sostanze tossiche o radioattive – lo stesso anno pubblica anche un libro in cui sono raccolte tutte le sue testimonianze.
Nel settembre 2009 L’Espresso pubblicò una serie esclusiva di dossier multimediali riguardanti il caso delle navi a perdere – tra essi vi è un’intervista col boss pentito della ‘Ndrangheta, Francesco Fonti, in seguito divenuta piuttosto famosa.
Sulla morte di Natale De Grazia non è ancora fatta chiarezza, il suo impegno per la legalità è stato riconosciuto dallo stato italiano solo nel 2004 e gli è valso una medaglia d’oro al valore civile, la stessa che ha onorato anche le bare di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Roberto Mancini, uomini umili e assetati di verità, che hanno coraggiosamente preso parte alla lotta contro i veleni.
Eppure, l’assegnazione di tale riconoscimento dovrebbe farci riflettere: una medaglia d’oro consacra questi uomini nella storia come degli eroi e li eleva a leggenda, ma al tempo stesso ne sbiadisce i tratti umani, facendo sprofondare nell’oblio la parte concreta del loro duro lavoro.
Per rendere noto l’impegno del capitano De Grazia, Vulcano Statale ha pubblicato anche un articolo in inglese che approfondisce la vicenda.