Del: 25 Marzo 2016 Di: Redazione Commenti: 0

Susanna Causarano

Da martedì 15 a sabato 19 marzo si è svolta la seconda edizione di Studi Festival, un progetto ideato e curato da Vincenzo Chiarandà, Anna Stuart Tovini, Claudio Corfone e Rebecca Moccia.

Cinquanta studi di artisti sono rimasti aperti in tutta la città, un centinaio di eventi sono stati organizzati tra gallerie e ateliers e più di 300 artisti hanno partecipato. Ogni studio aperto, oltre a mostrare il lavoro dell’artista che lo vive quotidianamente, ospitava le opere di uno o più colleghi, i quali a loro volta ne ospitavano altri o ricambiavano la cortesia. Abbiamo fatto un salto nello studio di Umberto Chiodi, giovane artista, classe ‘81, bolognese di origine, milanese d’adozione.

La prima cosa che si pensa scendendo gli scalini che portano al suo “regno” è di essere capitati da un rigattiere. Ci sono parecchi oggetti in vetro opaco, tutti sulle tonalità del blu e del turchese, che — come ci racconta — provengono da vari mercatini. Per l’occasione l’ampio studio è stato suddiviso a blocchi, dove ciascun blocco rappresenta un range di colori, un arcobaleno che incornicia le due opere disposte sul pavimento, appartenenti ai due artisti ospiti. La prima è costituita da un paio di foto che evidenziano un particolare di arredo ed è del fotografo Matteo Cremonesi; la seconda è dell’artista Graziano Folata e si tratta di un’installazione composta da un blocco di gesso in cui sono infilati dei guanti, raccolti casualmente e spaiati dallo stesso autore, dal 2009 ad oggi.

Colpiscono il garbo e la grazia con cui Umberto parla dell’operato dei suoi colleghi. Sono diversi, ciascuno ha il proprio carattere, la propria chiave di lettura del mondo e un personale modo di comunicarla, ma non c’è rivalità o invidia e nemmeno la necessità di acconsentire a mostrare opere altrui a patto che poi si possa parlare lungamente delle proprie. Anzi, è piuttosto difficile strappare qualche spiegazione.

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Si parte con l’adocchiare un foglio che riporta uno scritto di Baudelaire, tratto dai suoi Paradisi Artificiali, Lo spettro del Brocken, dal quale Umberto ha tratto ispirazione per il posizionamento delle due opere ospiti. Tutto intorno ci abbracciano i suoi disegni, alcuni a colori altri nero su bianco. Hanno tutti un sapore grottesco, gotico ma anche ironico e ridanciano. Sembrano dei satiretti gozzoviglianti che si burlano dello spettatore, lí impalato ad aspettare la prossima mossa.

Gli faccio la più banale delle domande e cioè da cosa trae ispirazione.

Da molte cose, letture, disegni. Amo Dürer e i grandi incisori, mi affascinano Blake e Goya nei suoi “capricci”. I poeti maledetti è un certo tipo di cultura cupa, “proibita”, scandalosa, di cui George Bataille è un esponente relativamente vicino a noi. Quel tipo di cultura, fortemente classista, non certo benevola con la donna e il suo ruolo, assimilabile a un pensiero di destra, sta venendo ripresa e guardata con un occhio meno ideologico. Non sono dell’idea che l’arte debba veicolare un messaggio politico, né riflettere la psiche dell’autore. Nell’opera c’è la personale visione della realtà, la propria lettura, una visione di un attimo o un’immagine maturata nel tempo che, grazie alla tecnica, l’artista esprime.

Dei suoi disegni, piuttosto eloquenti, è affascinate la precisione del tratto e il riempimento degli spazi con occhi, particolari, zampe, arti. Ogni disegno andrebbe visto da lontano, posizione in cui risulta quasi un mostro a più teste, e da vicino, dove si distinguono figure e situazioni.

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In un piccolo anfratto dello studio ci sono alcuni disegni incorniciati a cui Umberto mi racconta essere particolarmente affezionato, un’opera che ricorda vagamente le installazioni di Del Pezzo e lo schizzo del muso di una tigre fresco fresco di carboncino.

Gli chiedo quando ha cominciato ad esporre e se ha mai esposto all’estero. “Ho iniziato appena terminati gli studi di arte a Bologna e ho esposto a Sofia. Non è un periodo facile per l’arte, chi ha soldi vuole per lo più pezzi di arredo, spesso muti, che non sconvolgano troppo, che si intonino all’ambiente ospitante”.

Interessante riflessione anche fuori dall’arte. Non giudica, Umberto. Parla se sa e ha da dire a sufficienza ed è aperto al dialogo con tutti, a capirne le ragioni. Vede in questo una tattica efficace anche per la propria arte. Prima di salutarmi, mi offre una tisana e mi ringrazia. Anche il più piccolo scambio umano, fine a se stesso, ha un valore.

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