Del: 7 Marzo 2016 Di: Tommaso Sansone Commenti: 6

Sono ormai in molti ad attendere con trepidazione la sentenza che il 9 marzo giungerà dalla Corte di Cassazione e deciderà l’eventuale annessione di uno o due ulteriori quesiti al cosiddetto “referendum sulle trivelle”, inizialmente previsto per domenica 17  aprile 2016.

Vulcano Statale ha deciso di seguire la vicenda pubblicando, tra lunedì e mercoledì, tre articoli per illustrare i diversi aspetti del referendum:

  1. Il contesto geo-politico, sociale e ambientale in cui si colloca il referendum
  2. L’iter burocratico del referendum
  3. Un vademecum per comprendere i quesiti.

Per ora il referendum è costituito di un solo quesito, che è il seguente:

“Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?

Le conseguenze legali saranno:

  • Nel caso in cui vincesse il Sì:

Allo scadere dei contratti correntemente in vigore, verranno sospese tutte le concessioni (royalties) per le estrazioni di petrolio e metano dalle piattaforme situate entro le 12 miglia nautiche (circa 22 chilometri) dalla costa italiana.

  • Nel caso in cui vincesse il No o non si raggiungesse il quorum:

Le suddette concessioni rimarranno valide fino a quando i giacimenti interessati non saranno esauriti.

Inoltre, il testo fa riferimento solo alle trivellazioni in mare (offshore) e non a quelle sulla terraferma (onshore).

Il contesto geo-politico, sociale e ambientale in cui si colloca il “referendum sulle trivelle”

Nel Golfo di Taranto, lungo la costa meridionale della Sicilia, al largo del Veneto, dell’Emilia-Romagna e delle isole Tremiti sono in gioco i profitti delle compagnie petrolifere italiane ed europee, tra le quali spicca il nome di Shell, una delle quattro superpotenze mondiali del fossile assieme a ExxonMobil, Total e BP.

immagine1Fonti: Il Sole 24 Ore, gennaio 2016.

 

Dunque, l’esito della votazione potrebbe avere delle ripercussioni non trascurabili sul mercato dei combustibili fossili che sta già attraversando un periodo di cambiamento e, se vogliamo, di crisi, senza precedenti storici.

A logorare il settore degli idrocarburi sono infatti comparsi diversi fattori sociali, politici e culturali, capeggiati in primis dal complesso problema del cambiamento climatico.

La conoscenza scientifica al riguardo è sempre più abbondante e accurata. Grazie ai nuovi mezzi di informazione si diffonde velocemente, raggiunge anche i luoghi più remoti del globo e non lascia spazio ai dubbi.

Il 97% dei climatologi conferma l’esistenza del climate change e della sua origine antropogenica, tesi condivisa, per la prima volta nella storia, anche dalla maggioranza della popolazione del pianeta (circa il 60%), soprattutto perché buona parte ne sta già sperimentando gli effetti sulla propria pelle.

Inverni miti, estati più calde, precipitazioni di entità anomala e siccità prolungate si traducono in raccolti più scarsi, carenze idriche, inondazioni, danni agli edifici e alle persone, che a lungo andare si sono accorte del fenomeno.

Sostiene l’IPCC (Intergovernment Panel on Climate Change) che per evitare conseguenze drammatiche all’intero ecosistema terrestre e alla nostra civiltà sia necessario limitare il rialzo della temperatura media globale al di sotto della soglia critica di 2 °C  (se non addirittura 1.5 °C) entro il 2100.

Un simile traguardo è raggiungibile solo riducendo progressivamente il rilascio di gas climalteranti in atmosfera, fino ad arrivare, entro il 2100, alla quota zero emissioni in tutto il mondo (l’Europa deve già diminuire le proprie emissioni del 50% entro il 2050).

Inoltre, secondo i dati raccolti nella piattaforma multimediale di CarbonTracker, i giacimenti di petrolio, carbone e metano attualmente accessibili sono ben maggiori del fossil budget, cioè della quantità di combustibile che se bruciato innalzerebbe la temperatura esattamente di 2 °C.

Per non superare questo limite, oltre il 70% circa delle riserve deve rimanere sottoterra o comunque non deve essere utilizzato (problema del carbon bubble).

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Infografica tratta da “Unburnable Carbon”, carbontracker.org, 2014.  In giallo è rappresentato l’ammontare delle risorse fossili sulla Terra (quantità sconosciuta); in rosso le attuali riserve, cioè quelle cui si può attingere facilmente; in blu la quantità che se bruciata porterebbe a +3°C nel 2100; in verde quella che ci porterebbe a +2°C.

 

Tale sentenza è un duro colpo per l’industria petrolifera, che al momento ha tra le mani una grande quantità di idrocarburi “facilmente estraibili”: un tesoro che rischia di perdere il suo valore a causa del graduale calo della domanda, destinata a spostarsi sempre di più sulle energie rinnovabili e sulle tecnologie non inquinanti, come sta avvenendo ad esempio per le auto elettriche.

A ciò si aggiunge il fatto che una parte della finanza ha già fiutato il business dello sviluppo ecosostenibile e sta immettendo sul mercato dei pacchetti di investimento fossil-free sempre più competitivi, al fine di strappare alla morsa dei petrolieri gli imprenditori più coscienziosi.

Per questo motivo, la divulgazione del cambiamento climatico è sempre stata osteggiata dalle lobby del fossile che generalmente finanziano scienziati negazionisti (i cosiddetti climate deniers o climate skeptics) e strutture mediatiche deviate al fine di mettere in dubbio la credibilità del fenomeno, salvaguardando così le compravendite di oro nero.

Nell’autunno del 2015 un’inchiesta di Insideclimate news e del Los Angeles Times ha dimostrato che una macchinazione del genere è già stata ordita da ExxonMobil, la quale ha insabbiato le prove del surriscaldamento globale per oltre quarant’anni, mentre a fine febbraio 2016 il Parlamento statunitense ha disposto un’indagine su Shell, presunta colpevole del medesimo reato.

Solo la recente sensibilizzazione dell’opinione pubblica ha spinto i colossi degli idrocarburi a mutare la propria strategia, passando dal negazionismo più accanito (“il climate change non esiste”, “non è causato dall’uomo”) a delle forme più sottili e velate (“la green economy danneggia i mercati”, “non crea abbastanza posti di lavoro”, “senza il petrolio non si riesce a soddisfare l’intero fabbisogno di energia”, ecc.).

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Thesolutionproject è un ente che propone un diverso mix di energie rinnovabili per ciascuno stato al fine di condurlo all’autonomia energetica. La soluzione viene progettata ad hoc per ogni nazione tenendo conto delle sue possibilità economiche e delle caratteristiche del territorio. Tra le stime compare anche l’area necessaria ai nuovi impianti, il numero dei posti di lavoro creati e la riduzione della mortalità derivante dall’inquinamento delle fonti fossili. In figura: un estratto delle proiezioni per l’Italia.

Per quanto gli analisti abbiano sfatato i miti messi in circolazione dagli scettici e mostrato i benefici di un’economia indirizzata alla mitigazione del climate change, diversi Paesi non hanno la forza politica e finanziaria per svincolarsi senza rischi dall’egemonia dei combustibili fossili.

La paura generale è che un cambiamento nel sistema energetico-industriale possa produrre degli imprevisti sul mercato, guastare i rapporti tra gli investitori e originare pesanti ripercussioni economiche. Per questo molti governi continuano ad alimentare tacitamente i flussi idrocarburici, incentivandone la compravendita tramite sussidi monetari.

Fra questi stati c’è anche l’Italia e il referendum del 17 aprile casca tra capo e collo di un governo che, da un lato si presenta in abito verde alla COP21 di Parigi, e dall’altro apre i suoi mari ai signori del carbonio, con i quali spera di stringere vantaggiosi accordi commerciali.

Ma con scarso successo, perché le royalties che le aziende petrolifere pagano all’Italia sono tra le più basse al mondo: circa il 7% dei profitti, secondo Greenpeace, che denuncia l’unilaterale arricchimento dei petrolieri e sottolinea l’elevato impatto che le attività di ulteriori piattaforme avrebbero sullo stock ittico Mediterraneo, già ridotto in condizioni critiche dallo sregolato regime di pesca (overfishing).

Del resto, l’attuale situazione geopolitica non favorisce la transizione verde.

A inizio 2016, il tentativo dell’Arabia Saudita di indebolire l’Iran ha fatto crollare il prezzo del greggio a una trentina di dollari al barile, e lo ha reso di nuovo appetibile agli occhi dei consumatori, danneggiando gli investimenti fossil-free e le economie di interi Paesi.

Lo stesso oro nero gioca anche un ruolo chiave nel preoccupante conflitto mediorientale, causa dell’odierna crisi tra il blocco occidentale e la Russia.

Il petrolio è infatti la principale fonte di guadagno di Daesh (circa il 50% degli incassi), che lo contrabbanda tramite una vasta rete di arterie, le quali attraversano clandestinamente i territori sconvolti dalla guerra per poi sfociare all’interno di oleodotti insospettabili.  

A tale proposito si pensi al caso scoppiato nel novembre del 2015, quando Vladimir Putin ha pubblicamente accusato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di aver acquistato ingenti quantità di carburante proprio dall’ISIS, un’affermazione che ha subito aumentato la tensione tra la Russia e i membri della NATO.

Un altro esempio giunge da un articolo del Financial Times, secondo cui, ultimamente, nel mar Mediterraneo alcuni mercantili spariscono dai radar per brevi lassi di tempo, per poi ricomparire di nuovo sulla propria rotta.

Un gap temporale che – secondo gli inquirenti – sarebbe  giusto quello necessario affinché armi, combustibili fossili, rifiuti e varie materie prime presenti a bordo vengano scambiate con altre imbarcazioni o con punti di attracco poco appariscenti.

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Un articolo del Corriere della Sera riprende e illustra i fatti presentati dal Financial Times.

In accordo con quanto già sostengono alcune analisi, una minore domanda di combustibile fossile contribuirebbe ad assottigliare gli introiti nelle tasche dei terroristi e di chi segretamente li finanzia.

Senza contare poi che un Paese meno bisognoso di tale risorsa risulta più indipendente dalle scelte politiche ed economiche delle altre nazioni, scongiurando così il rischio di rimanere invischiato in situazioni ambigue o scomode.

Forse ignaro di tutto ciò, il nostro governo mostra il determinato intento di favoreggiare ulteriori trivellazioni nei territori dello stivale.

Tommaso Sansone
Mi piace fare e imparare cose nuove. Di me non so quasi niente.

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