Del: 4 Maggio 2016 Di: Sebastian Bendinelli Commenti: 0

In un lungo articolo pubblicato a febbraio su Noisey, Dan Ozzi si domanda se non sia tempo di dire finalmente addio alle recensioni dei dischi. Nell’era dello streaming illimitato e para-gratuito, l’ascoltatore non ha più bisogno del filtro qualitativo del critico: può ascoltare tutta la musica che vuole, a portata di click, e decidere autonomamente cosa vale la pena ascoltare una seconda volta.

Niente di nuovo: Internet sta portando disintermediazione più o meno in tutti i campi del consumabile, o “democratizzazione”, come la considera in questo caso Anthony Fantano, alias The Needle Drop, uno youtuber che fa centinaia di migliaia di visualizzazioni proprio recensendo dischi — auto-smentendo l’idea che le recensioni tout court siano morte.

Il discorso è molto più complicato di così. Se le recensioni giornalistiche vecchio-stile non hanno più un pubblico di riferimento, non vuol dire che non entrino in gioco altri fattori a orientare e influenzare i gusti di chi ascolta musica. Anzi, più si espande il bacino musicale a disposizione — fino ad essere, com’è ora, virtualmente illimitato — più diventa cruciale la mediazione fra il contenuto e i suoi fruitori. Trent’anni fa una recensione su un giornale — così come l’ascolto in radio, i consigli degli amici, e così via — poteva essere determinante nella scelta di acquistare il disco X invece che il disco Y (su un totale finito di dischi acquistati al mese). Oggi, la nuova valuta è rappresentata unicamente dal tempo che gli utenti dedicano all’ascolto; a orientare e determinare la sua spesa — su certi artisti/album/brani piuttosto che su altri — sono soprattutto le grandi piattaforme di streaming.

Tra queste, è in corso una vera e propria “curation war”: una guerra a colpi di algoritmi, playlist, radio personalizzate e raccomandazioni musicali, per guadagnare e mantenere il favore degli utenti (e magari anche l’abbonamento), ora che le differenze tra i cataloghi sono sempre meno rilevanti. Un meccanismo non diverso da quello che interessa quasi tutti i social network, che devono adattare i propri feed alle aspettative e ai desideri degli utenti, in base alle loro interazioni. Anche sulle piattaforme di streaming si pratica infatti un equivalente dello scrolling su Facebook o su Twitter: non ci si va soltanto per ascoltare un preciso artista, ma (sempre di più) anche per scoprire musica nuova, seguendo i percorsi tracciati dalla piattaforma stessa.

Il principio base è sempre quello del collaborative filtering: gli ascolti di tutti gli utenti servono a “prevedere” i gusti dei singoli, che approssimativamente si comporteranno in modo simile tra loro — è così che si ottengono le raccomandazioni del tipo “Se hai ascoltato i Darkthrone, potrebbero piacerti i Mayhem” (dato che una buona parte degli ascoltatori dei Mayhem avrà ascoltato anche i Darkthrone). Ma il sistema può essere ulteriormente raffinato, grazie all’analisi e all’incrocio di una mole di big data sempre in crescita.

Al momento, mentre Apple Music fa della curatela umana un cavallo di battaglia — tutte le sue playlist sono confezionate da esperti in carne ed ossa — all’avanguardia nell’utilizzo degli algoritmi di “lettura” e orientamento musicale è certamente Spotify. Il servizio — che conta 100 milioni di utenti attivi al mese e 30 milioni di abbonati — già da luglio dell’anno scorso offre a tutti i suoi iscritti una playlist settimanale personalizzata, Discover Weekly, basata soprattutto — oltre che sull’accurata profilazione dei generi ascoltati dal singolo utente — sulle playlist “umane” (se ne contano più di due miliardi in totale) che includono le stesse canzoni che abbiamo ascoltato durante la settimana: se abbiamo ascoltato War di Burzum, e nelle playlist che contengono War si trova spesso anche Skyggeddans dei Satyricon, e noi non abbiamo mai ascoltato Skyggeddans, ecco: probabilmente troveremo Skyggeddans nel nostro Discover Weekly del lunedì.

Spotify ha enfatizzato molto la conoscenza intima che l’algoritmo di Discover Weekly dovrebbe avere dei nostri gusti musicali, paragonando la playlist a un mixtape fatto da un amico. I numeri sembrano darle ragione: nelle prime dieci settimane erano già stati ascoltati più di un miliardo di brani, con un 60% di utenti che si sono spinti ad ascoltare più di cinque canzoni (la playlist dura circa due ore). Anche le recensioni del servizio sono tendenzialmente entusiastiche (c’è pure chi parla dell’algoritmo come se si trattasse di un deus absconditus imperscrutabile e onnisciente).

Ma Discover Weekly ha molti difetti, primo fra tutti la mancanza di cura nella consequenzialità dei brani: le singole scelte possono anche suonare azzeccate, ma il risultato finale difficilmente sarà piacevole da ascoltare dall’inizio alla fine, specie per chi solitamente fa ascolti variegati: non è la playlist che potreste mettere su a una serata in casa di amici. È un’opera da consultazione, diciamo. (Senza contare, poi, che quello che ascoltiamo su Spotify non è necessariamente quello che ci piace: magari è qualcosa su cui siamo capitati per caso e non vorremmo più sentire in futuro).

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Discover Weekly (e Spotify in generale) è anche molto debole su alcuni generi musicali, come il jazz. Nel mio DW di settimana scorsa al primo posto c’era A Night In Tunisia, un classicone iper-conosciuto del 1942, peraltro nella versione tratta da un disco che avevo ascoltato solo pochi giorni prima. Stesso discorso per Django del Modern Jazz Quartet, che se Spotify pensa che non la conoscessi mi ritengo profondamente insultato. Non conoscevo, invece, quelle due versioni di Nature Boy e ‘Round Midnight (altri due classici molto triti) — ma sono brutte.

Migliori risultati sta raggiungendo una playlist automatica lanciata poco tempo dopo, Fresh Finds, che — per dirla con le parole di Brian Whitman, principal scientist a Spotify — si propone di selezionare la musica nuova “che nessuno ha ancora ascoltato ma che presto verrà alla ribalta” (esattamente come il nostro Antilunedì, che esce ogni settimana ed è curato da un essere umano ed è molto meglio, fidatevi).

https://play.spotify.com/user/spotify/playlist/3rgsDhGHZxZ9sB9DQWQfuf

Brian Whitman è il fondatore di Echo Nest, una startup acquisita dall’azienda svedese per 100 milioni di dollari, sulla cui tecnologia si basa la selezione musicale di Fresh Finds: un software setaccia Internet, “leggendo” centinaia di blog e webzine musicali per individuare i nuovi artisti attorno a cui sta cominciando a crearsi sensazione; i dati, poi, vengono incrociati con gli ascolti degli utenti più attivi su Spotify, cioè quelli che più di frequente riescono ad anticipare il successo dei brani che ascoltano. Il risultato è ottenuto, quindi, grazie a una combinazione inedita di collaborative filtering e interpretazione automatica del linguaggio naturale.

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Se Fresh Finds riesce ad allargare la sua base d’ascolto — attualmente i follower della playlist sono poco meno di 180 mila — ha buone possibilità di imporsi come punto di riferimento globale per le novità discografiche (più della sezione Best New Music di Pitchfork, insomma), non soltanto “prevedendo” le hit future, ma contribuendo attivamente a farle diventare tali. Così, l’algoritmo non è più soltanto un aggregatore, ma un autentico tastemaker, al pari dei recensori o dei DJ radiofonici dei decenni scorsi. Nel piccolo del panorama musicale indipendente italiano, si può fare l’esempio di Old Fashioned Lover Boy, il cui singolo Oh My Love è finito in Fresh Finds un paio di settimane fa, guadagnando più di 24mila ascolti in un solo giorno:

Ha poco senso impostare una contrapposizione netta esseri umani vs. macchine nel campo della selezione musicale. La musica è scienza, anche nei suoi aspetti “emotivi”: ciò che ci piace in un brano può essere scientificamente misurato, e non c’è niente di strano, quindi, se un algoritmo è in grado di consigliarci qualcosa di buono da ascoltare. Semmai, si può osservare che questa forma di binge-listening, basata sempre più pesantemente sulle playlist (o sulle stazioni radiofoniche personalizzate), invece che sul formato album, favorisce un ascolto veloce e distratto, sempre meno attento alle specificità del lavoro dei singoli artisti. Ma questo è un effetto collaterale inevitabile, quando si ha un catalogo musicale illimitato sempre a disposizione. Sta al singolo ascoltatore evitare di caderci: bastano pochi clic e qualche ora di attenzione in più.

Sebastian Bendinelli
In missione per fermare la Rivoluzione industriale.

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