
C’è una scena nel film The Social Network di David Fincher in cui un giovane Mark Zuckerberg, interpretato da Jesse Eisenberg, programma in una notte sola un sito di ranking-girl, sbronzo. Facebook nasce nel febbraio del 2004, il film invece esce nelle sale quando ormai il social network ha superato i 400 milioni di utenti nel mondo.
La spontaneità e la naturalezza della scena è sintomo dell’entrata nella nostra quotidianità della programmazione.
Ogni cambiamento tecno-culturale sembra partire oggi da Internet: il rapporto fra editoria e web o la più recente decisione del gigante di Palo Alto di rendere accessibili a tutti gli utenti le dirette streaming, aprendo infiniti scenari sulla produzione video. Sempre di più la connessione fra programmazione e la praticità delle azioni quotidiane ci viene ricordata attraverso grandi conferenze e eventi dal forte richiamo mediatico. Non deve stupire dunque che molti sistemi scolastici privati e non si interroghino sull’importanza di introdurre l’insegnamento della programmazione all’interno dei percorsi di studio degli studenti.
Dai meno impegnativi workshop fino a vere e proprie campagne elettorali, come quella dell’australiano Bill Shorten, basate sull’introduzione del coding all’interno dei programmi di studio. Ma da cosa è composta esattamente la programmazione?
La programmazione, semplificandone usi e scopi, è—
- L’ordine secondo cui una sequenza di istruzioni è eseguita.
- Uno strumento per ripetere una sequenza di istruzioni un numero prescritto di volte.
- La possibilità di testare se una sequenza di istruzioni è eseguita oppure no.
Sebbene i metodi di programmazione siano mutati varie volte dalla sua nascita, questi rimangono i cardini su cui poggia lo studio della materia.
L’importazione di conoscenze tecnologiche è ormai vista come il valore principe dell’economia dei Paesi industrializzati oltre che un valore aggiunto pedagogico, conoscenze che quindi vanno coltivale fin dai primi passi nel percorso scolastico. Nasce dunque la corsa alle coding school, luoghi di apprendimento in cui i bambini imparano fin da subito i linguaggi della programmazione.
E sembra che tutti siano d’accordo, soprattutto per le prospettive lavorative future, che imparare a programmare sin dalla tenera età sia un bene. Questa credenza ha portato a casi come la creazione di una applicazione per iPad – ScratchJr – centrata sull’insegnamento del coding via virtuale (Coding is the new literacy! è il motto della compagnia). Ma siamo proprio sicuri che questa presa di posizione così forte sia effettivamente corretta?
La più concreta critica che viene fatta a questa linea di pensiero è che dovremmo iniziare a pensare ad un tipo di linguaggio che sia più intuitivo e facile, invece di ostinarci a migliorare un sistema che dimostra palesi segni di deterioramento temporale. Come scrive Gottfriedd Sehringer nel suo articolo per WIRED Shoul we really try to teach everyone to code? “While everyone today needs to be an app developer, is learning to code really the answer? Henry Ford said that, “If I had asked people what they wanted, they would have said faster horses.” I view everyone learning to code as app development’s version of a faster horse. What we all really want — and need — is a car”.
La critica, che più di una critica suona come un’evoluzione del coding, non sembra però prendere piede nell’ambiente nerd-oligarchico dell’Internet. L’unica possibilità per un futuro privo di complessi – per gli illetterati informatici – linguaggi di programmazione è che l’incremento esponenziale di richiesta per piattaforme web e app, quindi di risorse umane in grado di crearle, porti a una violenta spinta in avanti nell’evoluzione degli strumenti di programmazione.