Del: 1 Giugno 2016 Di: Redazione Commenti: 2

Elena Cirla

Con una superficie di 21 chilometri quadrati e una popolazione di diecimila abitanti, l’isola di Nauru è la repubblica più piccola del mondo: lo stato non ha nemmeno una capitale, i cui compiti sono svolti dalla città di Yaren, maggior cento dell’isola e sede del governo.

Un tempo conosciuta per i giacimenti di solfati, oggi Nauru è teatro di una controversa questione internazionale che coinvolge da più di un decennio l’Australia, colpevole di aver dirottato sull’atollo, tra il 2001 e il 2007, numerosi richiedenti asilo, per evitare di accoglierli sul proprio territorio.

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Risalgono al 2001 i finanziamenti stanziati dal governo di Canberra  per la costruzione di una struttura che accogliesse i flussi migratori, fondi che sono stati revocati nel 2007 ma reintrodotti nel 2012, in seguito a una seconda ondata di migranti molto consistente. Nel settembre 2001 il presidente dell’isola, René Harris, e l’allora Ministro della Difesa australiano Peter Reith avevano stabilito l’apertura di un centro di detenzione per 800 persone, per il quale vengono versati 20 milioni di dollari per attività di sviluppo; nel dicembre dello stesso anno, altri 10 milioni vengono stanziati, seguiti da un ampliamento di 1200 posti (in seguito dimezzati).

Le condizioni di vita nel campo, secondo una stima di Amnesty International  risalente al 2012, non si avvicinano nemmeno minimamente alle normative internazionali in vigore, ma non per questo l’Australia ferma la politica intrapresa: risale al 2001 la protesta nata a causa delle precarie condizioni di vita, delle violenze (numerosi sono i casi di abusi sessuali) e delle morti sospette.

A confermare la grave situazione è il divieto che l’Australia pone a tutte le ONG e ai giornalisti di accedere al campo profughi, da tempo troppo affollato Nel novembre 2012 si contavano 621 richiedenti asilo, di cui 70 bambini: nonostante a ottobre fosse stata annunciata una facilitazione nel processo di trasferimento che sarebbe dovuto durare una settimana, a dicembre la situazione non era cambiata.

Asylum seekers stand behind a fence in Oscar compound at the Manus Island detention centre in Papua New Guinea, Friday, March 21, 2014. Papua New Guinea expects to start resettling refugees detained in Australia's offshore processing centre on Manus Island as early as May. (AAP Image/Eoin Blackwell) NO ARCHIVING

In seguito a forti pressioni, nel 2012, il Ministro dell’Immigrazione australiano di allora, Chris Bowen, aveva ampliato le destinazioni della “Pacific solution” (così è chiamato il piano di ridistribuzione dei migranti) ad altre due isole della Micronesia, Manus e Papua Nuova Guinea.

La maggior parte dei migranti richiedenti asilo politico provengono da Sri Lanka, Afghanistan e Iran: attraverso l’Indonesia viaggiano per migliaia di chilometri alla ricerca di un futuro migliore in Australia, stato che prontamente, non appena si avvicinano, li dirotta verso le mete prestabilite, delle vere e proprie “isole lager” in cui la salute – sia fisica che mentale – viene messa duramente alla prova.

Le condizioni del campo, nonostante i continui e accorati appelli, continuano a essere precarie: si sono verificati un suicidio e un tentato suicidio a poche settimane l’uno dall’altro, di due giovani, un iraniano di 23 anni e una somala di 21, a cui si aggiungono le discriminazioni ai danni degli omosessuali – che vengono forzati a vivere doppiamente prigionieri nelle loro abitazioni per la paura di essere arrestati per “conoscenza carnale contro legge di natura” – e gli abusi sessuali sui bambini.

I problemi burocratici con cui si scontrano i migranti sono molteplici, in quanto la politica di accoglienza australiana è molto dura e selettiva: nessuno può accedere senza un visto, nemmeno i richiedenti asilo, che vengono spediti su una delle isole per un periodo indefinito che può durare anche 18 mesi, in attesa di un verdetto, non sempre positivo (basti pensare che il ministro dell’Immigrazione succeduto a Bowen, Tony Abbott, accolse, nel 2013, 160 richiedenti asilo su 20.500; l’anno successivo solo 4).

La situazione non sembra essere migliorata nemmeno con il ministro in carica, Malcolm Turnbull, che mantiene la stessa rigida linea politica. Infatti, la giovane somala che ha tentato il suicidio, dopo essere stata ricoverata in una struttura ospedaliera a Brisbane (lei sola, senza possibilità per la famiglia di assisterla), è stata rispedita a Nauru immediatamente, nonostante le numerose ustioni su tutto il corpo. Hodan – questo è il nome della ragazza – è rimasta imprigionata a Nauru per ben 3 anni prima di essere (momentaneamente) spostata a Brisbane. Il giovane iraniano, Omin Masoumali, ha dovuto attendere 22 ore prima di essere trasferito in ospedale: non ce l’ha fatta, è morto prima che potessero trasferirlo a Brisbane.

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Le strutture sull’isola, benché presenti, sono totalmente inadeguate, tanto che il 13 maggio 2016 un’altra 22enne somala è stata temporaneamente trasferita in un ospedale australiano per ricevere le cure necessarie, a causa di complicazioni dovute a un parto cesareo. Come nella precedente situazione, la giovane è stata rispedita subito sull’isola, nel centro di immigrazione.

Un altro giovane, come Omin, non ce l’ha fatta: originario del Bangladesh, è stato stroncato da un infarto, molto probabilmente indotto dall’ingestione di una dose eccessiva di pillole, dopo le continue minacce di morte a lui e al suo fidanzato.

Altri due casi di tentato suicidio sono quelli di Sam Nemati, iraniano, e di sua figlia, entrambi indotti a farlo dalle guardie del campo, per scoraggiare eventuali futuri migranti. Nemati aveva chiesto alle autorità di poter cambiare alloggio, poiché la figlia – che aveva solo 8 anni – non aveva nessuno con cui giocare. La sua richiesta, inizialmente rimasta inascoltata, è stata successivamente accolta, ma nel giro di due settimane il padre si è visto confiscare tutti i beni perché, secondo le testimonianze delle guardie, si era spostato senza l’approvazione delle autorità. Dopo essere stato accusato di tentato suicidio (illegale secondo le norme legislative dell’isola), Nemati è stato imprigionato per 12 mesi, alla scadenza dei quali avrebbe dovuto avere un processo equo: non è stato questo il caso, anzi è stato tenuto prigioniero per altre due settimane proprio per scoraggiare il ricorso all’autolesionismo.

Le guardie dell’isola non sono accusate solo di induzione al suicidio, ma anche di abusi sessuali a danni di minori. Risale a gennaio la notizia di una bambina di 6 anni abusata da un poliziotto di Nauru che, il 29 dicembre, mentre i genitori stavano lavorando, ha violentato la bambina. Nonostante il padre abbia denunciato il giorno stesso l’abuso sulla figlia, il poliziotto non è stato preso in custodia, processato o condannato. Una settimana dopo, il padre si è sentito dire che non c’erano abbastanza prove per arrestare l’assalitore. 

La Nuova Zelanda, in risposta, si è offerta di accogliere i rifugiati richiedenti asilo, ma l’Australia ha prontamente negato, sostenendo che sarebbe solo una destinazione temporanea per una successiva ondata migratoria di ritorno.

Le Nazioni Unite si sono mosse, chiedendo all’Australia di smettere di infondere false speranze ai rifugiati, facendoli attendere per tempi interminabili sull’isola, con la sola conseguenza di prolungare le sofferenze dei migranti.

Risale a qualche giorno fa la definizione dell’infinita attesa nel campo come “tortura psicologica” da parte di Tim Costello (fratello del più conosciuto Peter, politico australiano che fu vicepresidente del Partito Liberale Australiano dal 1994 al 2007), a cui Turnbull ha prontamente risposto interpellando il “perfetto macchinario australiano”, che non può permettersi di accogliere chiunque per evitare che si aprano falle nel sistema.

La senatrice Sarah Hanson-Young ha intimato la necessità di chiudere il campo e reinvestire i soldi in progetti di risanamento che coinvolgano anche Malesia e Indonesia, due dei principali luoghi di provenienza dei migranti. Uno dei problemi principali, per la Hanson-Young, è la totale assenza di chiarezza con cui lo Stato ha gestito la situazione.

Ma Turnbull è inamovibile: “è assolutamente fondamentale che manteniamo una decisa politica di protezione delle frontiere”.

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