
Il fatto il web sia terreno fertile per messaggi carichi di odio, razzismo, omofobia e altre aberrazioni è cosa nota. Grazie alla velocità con cui dilaga uno slogan buttato “nell’internet”, quest’ultimo è diventato il canale privilegiato per la circolazione di messaggi d’odio.
Proprio in questi ultimi giorni, si è tenuto a Pisa l’InternetFestival, iniziativa che, da sei anni, attira migliaia di persone per conferenze e workshops interamente dedicati al mondo della rete.
Quest’anno, in occasione del trentesimo compleanno di internet, è stato dedicato uno spazio particolare al dibattito sopra la nuova campagna europea sostenuta da Ue Bricks, progettata nel 2015 e lanciata nel mese di marzo.
L’obiettivo della succitata campagna è quello di contrastare, con il sostegno di parecchie testate giornalistiche soprattutto tedesche belghe ed italiane, l’hate speech, letteralmente il fenomeno dei ”discorsi d’odio” che impazzano in rete e, soprattutto, sui social.
Al grido di “Silence hate, changing words changes the world” e attraverso la diffusione dell’hashtag #silencehate, il progetto si impegna a tutelare tutte quelle minoranze che si sentono quotidianamente minacciate da gratuiti attacchi verbali, partendo proprio dal web, inteso come maggiore propulsore e catalizzatore degli stessi affronti anche nel mondo reale.
Fino a qui tutto giusto e tutto molto bello. Ma siamo proprio sicuri che questo sia il metodo più efficace e corretto per estirpare uno dei mali più profondamente radicati nella nostra società?
Innanzi tutto viene spontaneo chiedersi dove finisca il limite alla libertà d’espressione e cominci la censura. Affrontare questi delicati confini, come è già successo per i recenti fatti riguardanti la rivista Charlie Hebdo, non è mai al riparo dal rischio di cadere in contraddizione.
Alla lingua andrebbe sempre riconosciuto, anche nelle sue sfaccettature meno onorevoli, il suo statuto di “libera espressione”; se tentassimo, pur con i più nobili propositi, di adattarla ad un ordinamento precostituito, perderebbe sicuramente la forza intrinseca e la libertà che la contraddistinguono.
Tuttavia è vero anche che un approccio del genere non è sempre in grado di garantire il rispetto della sensibilità di tutti.
In una prospettiva del genere, occorre tenere presente il ruolo del linguaggio quale personale strumento di espressione, senza illudersi che la lingua sia plasmabile secondo le preferenze di chi governa e che i problemi sociali possano essere eliminati semplicemente risolvendo i problemi di comunicazione ad esse coinvolti. Fra l’altro, nella maggioranza dei casi, buona parte delle abitudini linguistiche di un gruppo sono talmente inglobate nello stesso tessuto sociale da cui proviene, da renderne quasi impossibile lo sradicamento.
Al momento non si è ancora affermata una regolamentazione del web che abbia eque ed effettive ripercussioni legali, ma ogni Stato sta adottando misure variabili.
La Germania e la Repubblica Ceca sono fra quelle che si stanno dimostrando più severe per quanto riguarda la propagazione dei commenti di risentimento, punendo i post che violano i diritti umani pubblicati da account di testate giornalistiche e facendo ricadere la piena responsabilità di ciò sulle stesse. In Italia invece la situazione è meno vincolante e provvedimenti più concreti devono ancora essere attuati.
Forse piuttosto che soffermarsi sull’uso illecito di certi termini, si potrebbero concentrare piú sforzi su campagne di sensibilizzazione che vadano oltre banali etichette. Ci si potrebbe chiedere perché chi trova normale odiare il diverso, ne abbia cosí paura. Non è facile uscirne solo con l’aiuto di crociate lessicali, sarebbe come prendere una scorciatoia sapendo che il solo sentiero che porta alla meta è sempre quello impervio.