Che il negazionismo climatico abbia fallito è da tempo un dato di fatto. Pare proprio però che alcuni negazionisti resistano e che, tra questi, alcuni puntino in alto e finiscono addirittura per candidarsi alla presidenza di uno dei paesi in cima alla lista dei produttori di CO2. Per Dondal Trump, ad esempio, l’evidenza scientifica sembra contare proprio poco: da tempo ripete in tutti i modi che il cambiamento climatico è stato inventato dai cinesi per rendere poco competitiva l’industria americana. Qualcuno dovrà pur spiegarglielo prima o poi, che le cose stanno diversamente e che il cambiamento climatico minaccia la vita di intere popolazioni. Tra queste, i Sami della Scandinavia sono tra le più colpite.
Stanziati nella Sápmi, un’area della calotta polare divisa dalle frontiere di ben quattro Stati (Svezia, Norvegia, Finlandia e Russia), hanno recentemente scoperto di essere, potenzialmente, tra le principali vittime del cambiamento climatico.
Da un rapporto di Survival International, organizzazione rappresentante del movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, emerge che, abitando le zone della terra che maggiormente risentono dell’impatto del cambiamento climatico e dipendendo in larga parte dall’ambiente per il loro sostentamento e la loro cultura, «i popoli indigeni sono più esposti ai cambiamenti climatici di chiunque altro al mondo.”
Lo stile di vita dei Sami dipende da due fattori strettamente legati: il ghiaccio e le renne. L’allevamento di queste ultime è la loro principale attività di sostentamento fin dal XV sec. L’innalzamento delle temperature è all’origine di un vero e proprio dramma per il popolo Sami. Lo scioglimento dei ghiacci, infatti, sta provocando una netta riduzione nel numero delle renne, poste di fronte a pericoli, finora sconosciuti, come la difficoltà di procurarsi il cibo e il rischio di annegare attraversando i sottili strati di ghiaccio che ricoprono i laghi negli ultimi inverni.
Insomma, le implicazioni pratiche che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla vita dei Sami sono numerose e difficilmente ignorabili. Innanzitutto, lo scioglimento della neve prima che il ghiaccio sui laghi si sia completamente indurito ha reso più rischiosi gli spostamenti e l’attraversamento lungo i sentieri tradizionalmente usati per il pascolo delle renne. L’importanza dell’allevamento delle renne permane in molti aspetti della cultura sami: dalle lingue (ce ne sono almeno 10), che contengono centinaia di parole per descriverle, passando per i canti, i matrimoni, fino ad arrivare alla cura dei bambini e degli anziani. Anche la pesca sta risentendo del clima impazzito. Le stagioni, finora più rigide delle loro credenze ataviche, da qualche anno appaiono sempre più variabili. Inverni spezzati da ondate inaspettate di caldo e caratterizzati da nevicate stranamente poco abbondanti, creano una spirale nella quale caldo e freddo si alternano senza regola. Questo ha spinto i Sami ad avventurarsi alla ricerca di nuove zone di pesca.
Un tempo i Sami erano bravissimi a prevedere le condizioni metereologiche. Riuscivano ad orientare le proprie attività sulla base del tempo e della durata delle stagioni, grazie all’esperienza e alla profonda conoscenza della terra che chiamano casa. Oggi, la loro capacità di previsione è messa a dura prova.
Già qualche anno fa uno studio condotto dal dipartimento di salute pubblica e medicina clinica dell’Università svedese di Umea sul modo in cui i Sami percepiscono i cambiamenti climatici aveva evidenziato che gran parte dei membri del popolo Sami ritiene che i cambiamenti climatici siano all’origine del senso di spaesamento e di pressione che stanno peggiorando la qualità della vita delle «sentinelle dell’artico». Certo, non è facile abituarsi alle variazioni stagionali, all’aumento dell’instabilità delle condizioni metereologiche, al cambiamento della vegetazione, alla riduzione dei terreni dedicabili al pascolo, alle morie di renne.
I Sami però sono da sempre consapevoli della propria vulnerabilità, forse perché da generazioni nascono, abitano e muoiono in un ambiente difficile. Sarà che l’oppressione politica di cui sono vittime è una storia vecchia, risalente addirittura al XVI secolo, quando Gustavo I di Svezia decise, senza consultarli troppo, che avrebbero fatto parte del regno. Da allora sono stati da più parte condannati a subire gli effetti di una tassazione incessante, delle politiche anti-nomadi, dei tentativi di assimilazione nelle culture dominanti giustificati attraverso gli stereotipi e il darwinismo sociale, del lavoro forzato. Tutto ciò non li ha però scoraggiati. Il «popolo più pacifico che ci sia», come amano autodefinirsi i Sami stessi, ha resistito senza mai ricorrere all’uso della forza, alle numerose difficoltà presentatesi nel corso della storia. Hanno ottenuto che gli fosse permesso di continuare a utilizzare correntemente le loro lingue e di insegnarle nelle scuole.
Sono riusciti ad istituire un Parlamento indipendente in tre dei quattro paesi che li ospitano (sono privi di organi di rappresentanza soltanto in Russia). Hanno partecipato ai negoziati della COP 21 a Parigi. Hanno manifestato più volte contro le grandi compagnie che minacciano le loro risorse: gli idrocarburi, i diamanti, il nickel dei loro giacimenti, i pesci del loro mari, il legno delle loro foreste.
Nonostante ciò, le difficoltà restano. La mancanza di potere decisionale dei parlamenti indipendenti condanna i Sami ad un’esclusione politica radicata, che rende difficile perfino l’implementazione delle misure adottate da Svezia, Norvegia, Finlandia e Russia per mitigare i cambiamenti climatici. Spesso imposte dall’alto senza la minima consultazione dei rappresentanti Sami, tali misure finiscono- paradossalmente- per violare i loro diritti. Una legge forestale che destina un’ampia parte delle foreste ad usi economici sta minacciando l’allevamento delle renne dei Sami della Finlandia. I vincoli europei imposti ai Sami della Svezia limitano la loro libertà decisionale. La crisi demografica li condanna ad essere una lobby più che una minoranza. Come se non gli fosse bastato l’esser sottoposti per secoli a politiche brutali.
Consapevoli della loro precarietà, comunque, nel tempo hanno addirittura fatto di necessità virtù, trasformando la resilienza nella loro principale caratteristica collettiva. Questa volta vorrebbero che gli fosse permesso di riappropriarsi del loro territorio, per applicare le conoscenze ancestrali che trasmettono di generazione in generazione, e imparare a conoscerlo di nuovo. Vorrebbero poter decidere liberamente la struttura delle mandrie, il numero delle renne da castrare, quello dei capi da macellare. Se gli fosse permesso di farlo, dimostrerebbero ancora una volta, di assomigliare alle piante della tundra in cui abitano: resilienti, capaci di assorbire il colpo derivante da cambiamenti inattesi, soprattutto quelli climatici, per creare finalmente nuovi equilibri.