Del: 19 Novembre 2016 Di: Barbara Venneri Commenti: 0

Bookcity anima l’ambiente familiare della Piccola Biblioteca Condivisa, dove il 18 novembre erano ospiti lo scrittore e sindacalista Yvan Sagnet, il giornalista Riccardo Coletti e Francesco Caruso. Autore di “Ama il tuo sogno” e di “Ghetto Italia”, Sagnet ricorda lo stato di schiavitù in cui viveva in Puglia appena nel 2011, il lungo sciopero, la lotta ed infine la vittoria.

Nato in Camerun, Sagnet sviluppa fin da bambino un’ammirazione per l’Italia, dovuta alla gloriosa partita di mondiale del suo paese d’origine svoltasi nel ’90 a Napoli. Nonostante ciò la sua ammirazione non era molto popolare in Camerun, nazione troppo culturalmente distante dall’Italia. A Torino studia Ingegneria, ma dopo aver perso la borsa di studio, per colpa di un esame di Informatica, si ritrova ad avere disperatamente bisogno di denaro ed è in quel momento che si trasferisce a Nardò, un comune in provincia di Lecce, quando viene a conoscenza grazie ad un giro di passaparola di un possibile impiego come raccoglitore di pomodori.

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“A Nardò scopro una realtà dell’Italia che mi era sconosciuta: le bidonville ed i ghetti. Sono stato ospite nella Masseria Boncuri, un centro messo a disposizione dal comune di Nardò per l’accoglienza dei lavoratori stagionali che raggiungevano il posto per la raccolta delle angurie e dei pomodori, le due colture che si producono in quella zona.

Rimango scioccato: per me non era diverso da un campo di concentramento.

C’erano delle tende, centinaia e centinaia di lavoratori che venivano da tutte le parti dell’Africa che vivevano in condizioni disumane e che nemmeno nella mia terra si erano mai viste. C’erano solo 5 bagni per circa ottocento persone. Poi quando è iniziata l’attività lavorativa si è presentato un signore che tutti chiamavano ‘il caporale’.”

Il caporalato, ossia quel sistema di reclutamento agricolo legato ad organizzazioni mafiose, è diffuso tanto nel sud quanto nel nord Italia, dice lo scrittore. Ai lavoratori, per lo più immigrati e persone in gravi difficoltà economiche, non venivano stipulati contratti regolari ed erano costretti attraverso violenze ed intimidazioni a lavorare dalle 8 alle 12 ore al giorno. “Eravamo costretti a pagare al caporale una tassa di trasporto di euro perché era vietato raggiungere il posto di lavoro usando un mezzo proprio. Poi ci costringevano a pagare un panino tre euro e cinquanta e l’ acqua un euro e cinquanta, quindi ogni giorno si spendevano circa 10 euro. La paga era a cottimo, dipendeva da quanti contenitori di pomodori si riuscivano a riempire; mediamente dai quattro ai cinque cassoni. Per ogni cassa la paga era di tre euro e cinquanta.” Inoltre venivano ritirati i permessi di soggiorno agli immigrati che ne erano in possesso, al fine di reclutare altri lavoratori. Spesso i documenti ritirati sparivano ed automaticamente l’immigrato che ne era il proprietario diventava clandestino.  In tal modo si trovava completamente alla mercé del caporale.

“Ho deciso di ribellarmi e ho organizzato il primo sciopero di lavoratori migranti. Non era così semplice perché tutto quello che avveniva era saputo da tutti, dalle istituzioni, dalle forze dell’ordine, dalle aziende. Vigeva quindi un sistema di complicità che non lasciava spazio alla rivolta, un sistema mafioso”.

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La protesta, durata circa due mesi, fu anche appoggiata da CGIL, ma nonostante il dialogo tra istituzioni e scioperanti, gli sforzi sembravano essere vani. “Avevamo capito che dai tavoli non avremmo ottenuto nulla e che bisognava tornare alla lotta. Quando abbiamo deciso di bloccare la produzione, per la prima volta si sono presentati i proprietari terrieri per supplicarci di tornare a raccogliere i pomodori. È lì che abbiamo capito la forza dello sciopero.”

Il risultato più importante ottenuto dallo sciopero fu proprio l’introduzione del reato di caporalato nel 2011, una legge che è stata modificata ieri, 18 novembre, con l’approvazione della Camera dei deputati. Il reato di caporalato prescinde ora dall’utilizzo della violenza e sono state introdotte delle sanzioni (da uno a sei anni di reclusione e dai cinquecento ai mille euro di multa per ogni lavoratore reclutato) non più solo per l’intermediario, ovvero il caporale, ma anche per il datore di lavoro.

“La lotta paga, però questo non significa che abbiamo vinto la guerra. Ci siamo resi conto che il fenomeno del caporalato è strutturale e va oltre i confini del Salento, fa parte del sistema politico e del sistema imprenditoriale.”

Barbara Venneri
Non chiamatemi Vènneri.

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