
Sono le quattro di notte dell’otto novembre 2016.
Non è una notte qualsiasi, sono in corso le elezioni presidenziali più controverse della storia degli Stati Uniti d’America. I candidati sono noti, Hillary Rodham Clinton, politica di lungo corso, e Donald J. Trump, magnate alla prima candidatura ad una carica pubblica. Mentre scriviamo, il live forecast del New York Times segna il 58% di possibilità che sia Trump il quarantacinquesimo presidente degli U.S.A.
Se questa previsione si avverasse il risultato sarebbe clamoroso: primo, perché totalmente imprevisto; secondo, perché sono difficilmente prevedibili le conseguenze di questo evento.
La verità è che Trump è un candidato che non è mai stato preso sul serio. Nessuno ha mai veramente creduto che potesse vincere.
In America, come in Europa, ci si è limitati a ridere di alcune sue uscite e a reagire con disgusto alle sue dichiarazione più becere. Si sapeva che Clinton non era particolarmente gradita agli elettori americani, ma nessuno si è mai mosso dalla convinzione che sarebbe stata lei a vincere. David Rieff, giornalista americano, aveva dichiarato al festival di Internazionale a Ferrara:”At the election Trump will be slaughtered by Clinton”, Trump sarà massacrato alle elezioni. I sondaggi, tutti i sondaggi, fino allo spoglio dei primi voti avevano dato la Clinton in ampio vantaggio e quasi certamente presidente. I pochi che non avevano pronosticato la sua vittoria, semplicemente non si erano pronunciati per scaramanzia.
Ancora una volta – come è successo con la Brexit – i sondaggi si sono rivelati inadatti ad inquadrare la realtà politica di un paese. Domani i primi ad apparire sul banco degli imputati saranno loro, i sondaggisti, sebbene il compito di “intuire scientificamente il futuro”, come Ann Selzer descrive il suo lavoro, non sia per nulla semplice. Forse, semplicemente, si dovrebbe smettere di fare troppo affidamento sui sondaggi, perché qualsiasi previsione può essere ribaltata.
Al di là della sorpresa e dell’imprevisto, nonostante sia prematuro formulare un’analisi storica, sono chiari i fattori che hanno portato Trump a vincere. Innanzitutto, il fatto che si sia presentato come candidato anti-establishment.
Sebbene formalmente Trump si sia candidato come repubblicano, di fatto la sua vittoria è una grande vittoria dell’antipolitica. La sua candidatura ha distrutto i quadri del partito repubblicano, alle primarie ha surclassato tutti, dal principe ereditario Jeb Bush alla giovane promessa Marco Rubio; la sua vittoria, invece, ha distrutto la tradizione del partito democratico. Dietro al suo passaggio solo macerie.
Enrico Mentana, in diretta su La7, ha dichiarato che la Brexit e la vittoria di Trump chiudono il Novecento.
Non si può ancora stabilire se la portata storica di questa vittoria sia davvero così ampia, ma sicuramente è un altro segno del montare dell’antipolitica in occidente e marca il passaggio della crisi del sistema politico tradizionale, che divide i partiti nello schema bipolare in destra e sinistra in Europa e nei partiti Democratico e Conservatore negli Stati Uniti. Se questa crisi sia periodica o definitiva saranno le prossime elezioni dei grandi paesi europei a dirlo. Nel 2017 si voterà in Germania e in Francia. La Gran Bretagna si sta dibattendo nelle sabbie mobili della Brexit. In Italia non si sa quanto questa alleanza di governo potrà ancora durare. Il futuro, oggi più che mai, è incerto.
L’incertezza permane anche sull’azione politica di Trump. Le sue proposte, dal bando di ogni musulmano dal suolo degli Stati Uniti alla costruzione di un muro al confine col Messico, sono improbabili ed impraticabili; è tipico dei bravi propagandisti, ma cattivi politici: promettere quel che non si può mantenere.
Non si sa con certezza quello che succederà, si sa solo che si tratta di un ignoto, come testimonia anche il crollo del sito per l’immigrazione del Canada, che incute grande timore.