C’è un paese nella “civilissima”, “democraticissima” Europa, che ha creduto a lungo in un unico mito politico: il socialismo. Ci crede con convinzione almeno dal 1919, data della proclamazione della Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia. Il credo si è poi rafforzato durante gli anni dell’URSS e della semplificazione politica, culturale e ideologica prodotta dalla guerra fredda. Lui, il mito del socialismo, è sopravvissuto perfino al 25 agosto 1991, quando la Bielorussia si è dichiarata indipendente.
Paradossalmente, e diversamente da quanto accaduto in altri paesi dell’ex blocco sovietico, la fine della storia – che secondo il politologo Fukuyama sarebbe avvenuta con la fine della guerra fredda e la vittoria del capitalismo sull’economia pianificata – del mondo libero sul totalitarismo non sembra aver toccato la Russia Bianca. Qui, le prime elezioni presidenziali a suffragio universale del 1994 poco hanno contribuito a sostegno della causa democratica.
Da allora, infatti, Aleksandr Lukašenko, ha progressivamente accentrato il potere nella carica presidenziale. Probabilmente lo ha fatto per una questione di coerenza: deve infatti tener fede al soprannome che da solo si è attribuito: batka, padre. Così, attraverso referendum e modifiche costituzionali più o meno legittime, il padre padrone del popolo bielorusso è riuscito ad aumentare il numero di mandati presidenziali consecutivi previsti per legge. Nell’ottobre dello scorso anno ha collezionato il quinto mandato. Un record niente male.
Come spiega Tatsiana Huryonovich alla rivista online Nouvelle Europe, il paese ha mostrato una generale preferenza per la stabilità a discapito della democrazia fin dall’indipendenza dall’URSS, quando le riforme politiche sono passate in secondo piano rispetto all’obiettivo, considerato primario e più concreto, della stabilità economica e istituzionale.
Il passato sovietico può aiutare a comprendere questa scelta. Da un lato, la struttura amministrativa gerarchica tende a favorire un accentramento del potere piuttosto che una sua condivisione. Dall’altro, la prosperità economica e la sicurezza sociale sono sacralizzate da una cultura politica priva di ideali civici e partecipativi. Apparentemente la scarsa democraticità del paese non sembra preoccupare eccessivamente i bielorussi. Ma è davvero così?
In realtà, in quella che da molti commentatori internazionali è stata definita la “dittatura bielorussa”, sono registrati 2300 associazioni e 15 partiti politici in larga parte di opposizione, esiste divisione dei poteri, i media sono indipendenti.
Eppure nelle elezioni parlamentari dello scorso settembre sono stati eletti, per la prima volta, solo due membri dell’opposizione.
Ciò che emerge dall’ultimo rapporto di Human Rights Watch è allarmante: la Bielorussia resta l’unico paese europeo in cui la pena di morte esiste ed è pienamente utilizzata. Le detenzioni arbitrarie degli attivisti politici sono all’ordine del giorno. Alla fine del 2014 gli emendamenti apportati, senza alcun dibattito parlamentare, alla legge sui mass media hanno autorizzato il ministro dell’informazione a bloccare l’accesso ai siti internet che ritiene colpevoli di pubblicare contenuti illegittimi senza alcun previo ordine giudiziario. Dopo tutto, per quanto il popolo bielorusso possa preferire la stabilità economica e sociale alle libertà politiche, non può ignorare le denunce provenienti sia dall’esterno che dall’interno.
Qualcosa però potrebbe cambiare, soprattutto tenendo conto del fatto che finora tutto questo alla Bielorussia è costato l’esclusione dai principali tavoli di discussione degli affari europei. L’UE gli ha sbattuto la porta in faccia, adottando una politica di sanzioni economiche dai dubbi risultati. Il Consiglio d’Europa ha seguito l’esempio dell’Unione nel 1996, sospendendo lo status di paese invitato all’Assemblea che avrebbe dovuto preannunciare un ingresso a tutti gli effetti. Per far fronte a questa situazione di semi-isolamento, il governo di Minsk sta incentivando il rafforzamento delle relazioni diplomatiche con un gran numero di interlocutori, prima fra tutti l’Unione Europea.
Il fatto che la Bielorussia tradizionalmente divisa tra Bruxelles e Mosca sembri ultimamente propendere dal lato dell’Occidente non deve far pensare che la politica estera bielorussa sia improvvisamente votata alla causa e agli idealismi della democrazia, del liberalismo e dei diritti.
Piuttosto, calcoli di realpolitik per nulla casuali spiegano le scelte del governo di Lukashenko in ambito internazionale. In un paper prodotto dal think tank Ostrogorski Center, Yaraslau Kryvoi e Andrew Wilson spiegano che le ripercussioni della crisi economica russa e l’annessione della Crimea hanno risvegliato fantasmi di un passato sovietico che, per quanto possa ancora pesare sulla cultura politica bielorussa e sulla sua burocrazia, ha anche ricordato a Lukashenko che i rapporti geopolitici possono rivelarsi un’arma a doppio taglio.
È in quest’ottica che si spiega il tentativo della Bielorussia di prendere le distanze dalla Russia aprendo all’UE. Una reazione favorevole alle avances bielorusse è intuitivamente ipotizzabile. Non solo perché Bruxelles, dal canto suo, deve prendere atto del fatto che un programma di rafforzamento della società civile e di conoscenza dell’UE potrebbe avere effetti migliori delle politiche sanzionatorie a lungo adottate nei confronti di Minsk e miseramente fallite. A queste considerazioni se ne aggiunge un’altra doverosa, che riguarda la difesa.
La sicurezza europea, finora garantita dalla NATO, si ritrova ultimamente sfidata dalle tensioni con la Russia e dalle dichiarazioni incendiarie della nuova presidenza americana, che sembra intenzionata a chiedere il conto agli alleati europei per il contributo dato finora al progetto di difesa collettiva. Insomma, sono tempi difficili per la democrazia.
Il mito politico dell’occidente è messo in discussione prima dalle considerazioni di realpolitik, poi dalle scelte populiste degli elettorati dei paesi che l’hanno promosso ed estremizzato a tal punto da farci la guerra, per esportarla e implementarla con ricadute pratiche spesso drammatiche perfino laddove dove il mito non era mai esistito, né era mai stato sostenuto da una cultura politica della rappresentanza popolare, laddove i miti erano altri.