Del: 3 Novembre 2016 Di: Guia Zavanella Commenti: 0

Guia Zavanella

Marina, nella terra di mezzo: “Io non appartengo a questo pianeta.” Esordisce così Marina Abramović nel suo film The space in Between. Effettivamente il fisico da gigantessa, la pelle marmorea, gli occhi vitrei e torbidi fanno pensare ad una figura extra-terrestre, sospesa tra due mondi.                                                                                 

Voglio che l’umanità impari a trascendere il dolore” , questa è la missione di cui si sente investita l’artista e che più ha afflitto la sua esistenza tormentata, prendendola “anima e corpo”. Fin dai primordi della sua carriera, Marina ha sempre colpito per un’arte estremamente provocatoria, volta a suscitare una forte reazione nello spettatore.


Che piaccia o no, Marina, la “Grandma” della performance, ha inaugurato un nuovo modo di fare arte performativa: il corpo, preso nei suoi limiti spaziali, diventa lo spazio liminale, “the space in between” appunto per un’esperienza extrasensoriale, volta a capire fino a che punto la sofferenza, spinta fino all’ultima lacrima, può essere percepita dall’uomo.

The Space in Between, è un docu-film che ben riassume la poetica dell’artista e rappresenta una sorta di viaggio terminale di Marina nella sofferenza, alla ricerca dell’antidoto che consenta all’umanità di superare il dolore fisico, spezzando le catene che legano l’uomo alla sofferenza. 

Diventando immagine della sua immagine, Marina mette in scena sé stessa, comprendendo il senso di estrema solitudine che ci accomuna inequivocabilmente. Il suo tentativo di ricreare una forma di empatia percepita universalmente prende il nome di Metodo Abramović , pratica che unisce neuroscienza e spiritualità, attraverso dispositivi scientifici e naturali messi a disposizione di una comunità di “fedeli”, tra cui anche Lady Gaga. L’arte della performance diventa “mainstream” proprio per intenzione dell’artista che necessita, ad un certo punto, di un aumento dell’audience. Ecco che si apre la deriva narcisistica della nostra epoca visto che Marina si perde continuamente a rimirare la propria immagine, finendo per innamorarsene e allo stesso tempo distaccarsene, consapevole della propria intima duplicità.

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Una nota peculiare è la frequente apparizione della videocamera, volta probabilmente a sottolineare il quadro di riferimento in cui si svolge la scena che altro non è se non la sua vita.
E’ come se la performer ci dicesse: “ Insomma non crederete che sia tutto vero? Non è sempre una finzione ciò che sto rappresentando? Non è sempre un film quello che state vedendo? Non credetemi, o perlomeno credete a ciò che vi faccio vedere: noi siamo pura contraddizione, solo immergendoci, filmando arriveremo alla verità di fondo. “


Inoltre la Marina divinizzata non è credibile. Soprattutto perché si parla di “religione” applicata al metodo Abramović , con il risultato che pare più uno strumento di marketing, un composto di tutte le tendenze spirituali del nostro mondo. Dal ritorno autentico alla natura, al cibo biologico, passando per una visione comica dell’universo, il film – che include il suo cammino di rinascita in Brasile, intrapreso dopo essersi lasciata con il suo amore Ulay – sembra quasi la versione aggiornata con più sofisticazioni di Mangia, prega, ama.

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Stessa trama (delusione amorosa, fuga d’amore in un paese esotico per ritrovare se stessi), stessi semplici messaggi spirituali, con la differenza che The Space in Between si prefigge un obiettivo più serio: arrivare al cuore dell’umanità. La trama appositamente non originale nasconde un intento manipolatorio, come tutte le performance passate dell’Abramović , dove, in questo caso, l’esca è la delusione amorosa, che ci porta a coinvolgerci umanamente nella vicenda, per poi portarci a sperimentare torture visive, o semplicemente il suo vissuto autoreferenziale, in un cammino che non risulta avere alcun riscontro pedagogico se non la sua tendenza a volersi fare divinità e a richiederci fedeltà totale. Si potrebbe quasi sostenere che tutti i messaggi che vengono espressi nel film fungano da elementi accessori rispetto all’intento della Sibilla, fondamentalmente, avida d’attenzioni.


Ritornando al dilemma esistenziale, Marina Abramović  è attrice e non lo nasconde. E’ la sua pelle a dirlo per prima, incipriata come una maschera dell’opera. L’apparenza androgina ricorda un Carmelo Bene o una Maria Callas. La voce è profonda, cadenzata, estremamente affascinante e persuasiva: teatrale. Ma nell’atto stesso in cui recita non si prende sul serio, insiste a dimostrare che sta fingendo.
In questo è attrice ma in questo è anche Marina Abramović .

https://vimeo.com/71313266

Alla fine del documentario, contro ogni aspettativa, Marina afferma: “il vero artista è il pubblico. Io sono lo specchio del pubblico e il pubblico è il mio specchio”. Infatti è proprio il pubblico, nella performance, a partecipare allo spettacolo e a determinarne il suo successo, attraverso la sua reazione. Il seguito di Marina è mondiale, mediatico. Ma allo stesso tempo, dopo una delle sue prime performance, proprio lei ammette che dopo lo spettacolo, dove credeva di essere riuscita a creare un legame empatico con gli spettatori, nessuno si relazionava a lei. Una volta uscita dal proprio ruolo, continuava a restare un estraneo, votato all’indifferenza generale.
La domanda che ci pone ci offre grandi spunti di riflessione. Non sarà forse il pubblico il vero attore? Non saremo alla fine tutti noi attori potenziali, con mille identità e sempre pronti a rappresentare un’ideale di noi stessi, fingendo di aderire all’altro, senza apparente coinvolgimento? Marina è sincera, non si tira indietro, ha il coraggio di donarci la sua rappresentazione più autentica, ma pur sempre una rappresentazione resta.

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Marina Abramović  è un’espressione profonda della nostra epoca contemporanea.
In questo profluvio di immagini da cui siamo sommersi, l’artista cerca di definire e incidere la propria immagine estetica attraverso una documentazione fotografica rilevante .
Tutto il film è costruito su un minimalismo concettuale affascinante. The Space in Between, in fin dei conti, non è un semplice documentario, è una ripresa “live” non priva di un elemento finzionale che non finisce mai di contraddirsi, rivelandosi innocente ai nostri occhi.  
A voi l’ardua sentenza: https://vimeo.com/59367009



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