(Opere di Leigh Ledare. Foto dell’autrice)
Per tutti gli amanti della fotografia, Fondazione Prada ha adibito due piani del proprio edificio in Galleria Vittorio Emanuele II – tra vestiti e dolci di Marchesi – ad Osservatorio fotografico per esposizioni ed eventi sul tema. L’inaugurazione, avvenuta sotto Natale con l’avvio della mostra Give me yesterday, visitabile fino al 12 marzo, ha attirato parecchi visitatori, incuriositi dall’originalità della mostra di cui non è facile parlare, perché del tutto priva di un fil rouge. Almeno in apparenza.
La fotografia potrebbe essere la sola parte in comune e invece no, visto che troviamo un video di un album mentre viene sfogliato, costruito digitalmente a partire dalle foto sull’hard disk della madre dell’artista Vendula Knopová. Quindici artisti, di epoche diverse – il più vecchio, Greg Reynolds, è del 1958, mentre la più giovane, Izumi Miyazaki, è di classe 1994. Due estremi non solo per età, ma anche per vita: lui pastore presso una comunità evangelica, abbandonata dopo essersi dichiarato omosessuale, per trasferirsi a New York a studiare cinema; lei blogger su Tumblr.
Visione e luci vintage contrapposte a schiettezza ingenua moderna.
Anzi, sbagliato usare il participio contrapposte. Le foto infatti scorrono su un unico lato dello spazio espositivo, mescolate e alternate senza un andamento cronologico. Si crea così un murale su due piani che vuole più essere uno studio piuttosto che un risultato, sottolineando che la ricerca è aperta e chiede ispirazione a tutti.
Attraverso le foto si può raccontare una ripicca, una manifestazione di sopravvivenza, anche a scopo terapeutico – come nel caso di Tomé Duarte con il suo Camera Woman, progetto sviluppato e concluso in una giornata di fine estate del 2015, composto di autoritratti scattati con indosso i vestiti della ex compagna appena andata via – o ancora una ricerca delle proprie radici come nel caso della sudafricana Lebohang Kganye, che per comporre il suo Her Story sovrappone digitalmente alcune foto della madre da giovane alle proprie, creando un continuum tra le generazioni come se la madre, appena scomparsa, fosse ancora lì con lei.
La fotografia non pretende qui di raccontare i grandi cambiamenti storici o denunciare i soprusi. Chi scatta sceglie di raccontare sé stesso, il proprio universo, che non vale meno dei massimi sistemi, visto che ne forma proprio il composto vitale. Nemmeno si sceglie di raccontare sé stessi, a volte forse non si può fare altro, sembrano dirci queste foto.
Tutto in questa mostra rientra in una sfera di studio, di tentativo, di ricerca. Non si sa se della foto perfetta, di stupire, di sorridere o semplicemente di stare a galla. Si esce con molto dubbi, ma con una discreta dose di meraviglia, quella che trasuda dalla vita quotidiana e dalla sua intrinseca verità.