In Birmania si sta consumando la guerra più lunga del mondo. E la più sconosciuta, che da ben 68 anni non dà tregua alla popolazione birmana, soprattutto alle minoranze. La diffusione dell’immagine di Mohammed Shohayet, un bambino di 16 mesi di etnia rohingya, morto annegato nel tentativo di scappare alla guerra, sembra aver riacceso la questione. Che è molto più complicata di quanto si creda.
È il 1948 quando la Birmania raggiunge l’indipendenza dal Regno Unito, sotto la guida del generale Aung San, pater patriae, oltre che della famosissima Aung San Suu Kyi. Nello stesso anno, a breve distanza, nasce una repubblica indipendente, conosciuta come “Unione della Birmania”. Che, però, ha vita breve.
Con la creazione del nuovo Stato iniziano ad arrivare innumerevoli richieste per la costituzione di uno stato federale da parte delle minoranze (fra cui i karen). Nel 1961, infatti, irrompe il generale Ne Win, di origini cinesi, che, con un colpo di stato, destituisce il governo democratico.
Nel 1962 la Birmania diventa una dittatura militare, fortemente osteggiata dall’opposizione: il Partito Comunista di Birmania – legale solo per tre anni, dal 1945 al 1948 – fino agli anni ’90 è impegnato in azioni di guerriglia.
Ma è solo l’8 agosto 1988 – data simbolo, ricordata come rivolta 8888 – che la situazione cambia: Ne Win viene destituito del suo incarico di Capo dello Stato, mentre prende il potere un altro generale, Saw Maung, attraverso un altro colpo di Stato.
E’ solo a distanza di trent’anni, nel 1990, che si tengono le prime elezioni libere. La LND (Lega Nazionale per la Democrazia), guidata da Aung San Suu Kyi, vince le elezioni, senza però riuscire a raggiungere il potere. Il Premio Nobel per la pace viene rinchiuso in prigione – sarà rilasciata solo nel 2010 – e il potere passa nelle mani di una giunta militare.
Dopo accorati appelli internazionali, si tengono nuovamente delle elezioni – a causa delle leggi, definite incostituzionali – nel 2008 e nel 2010, anno in cui viene rieletta Aung San Suu Kyi. Ma la giunta militare non molla, sostenendo di aver avuto la maggioranza dei voti, con l’80% dei consensi.
È solamente nel 2015 che, con nuove elezioni parlamentari generali, la LND vince, conducendo Aung San Suu Kyi in parlamento e riportando al regime democratico quella che per cinquantquattro anni è stata una dittatura. Il Premio Nobel promette democrazia e diritti, senza discriminazione alcuna, né di sesso, né di religione, né di etnia.
Paladina dei diritti che, di fatto, in questi giorni continua a rimanere in assordante silenzio nonostante le accuse che piovono addosso a lei e al suo governo.
Accuse che pesano come macigni. Sembra infatti che i militari birmani si stiano macchiando del crimine di pulizia etnica contro l’etnia dei rohingya, da secoli presente nel territorio birmano.
Numerosissimi gli appelli che provengono da tutte le ONG del mondo, fra cui l’ONU, a cui ha scritto un gruppo di 23 attivisti per porre fine alla crisi umanitaria.
Sembra tuttavia che Aung San Suu Kyi non abbia le mani sporche quanto si crede: la giunta militare, infatti, avrebbe ancora due ministeri chiave in mano, quello della Difesa e quello degli Interni. La convivenza, di sicuro, non è delle migliori.
Situazione che rispecchia bene quella fra Bamar (l’etnia principale in Birmania) e Rohingya – a detta dell’ONU, una delle minoranze più perseguitate al mondo – stigmatizzati prima dal governo militare per quasi mezzo secolo a causa della loro fede musulmana (la giunta militare birmana aveva fondato la sua stabilità, fra le altre cose, anche sul buddismo theravada, in opposizione ad ogni altro credo) e, più recentemente, da un alto diplomatico birmano che, in viaggio ad Hong Kong, li aveva definiti “brutti come orchi” e “un popolo che non ha nulla a che fare con il Myanmar”.
Le motivazioni di quest’odio sono riconducibili a motivi religiosi. Sono le frange buddiste estreme, infatti, a scagliarsi contro i Rohingya, di credo islamico. Anche se in molti, ultimamente, sostengono che il problema della presenza dei Rohingya non sia etnico, ma piuttosto una “costruzione politica”. Molti dei Rohingya nello stato di Rakhine – il maggior bacino della loro presenza – non sono musulmani, ma buddisti.
Il vero problema è la paura. Secondo una recente indagine, la propaganda anti-musulmana è diventata parte del normale discorso nazionalista. Degli intervistati, l’85 % ha citato la paura di una svolta musulmana del Paese come la ragione principale per la loro avversione dei musulmani. Nello stato di Rakhine, questo discorso è amplificato a causa delle esplosioni di violenza comunale.
Storie di violenze, uccisioni e stupri sono all’ordine del giorno, anche se la verifica è stata quasi impossibile, dato che ai media indipendenti è stato negato l’accesso alle zone colpite.
Il problema umanitario resta ed è imponente. La presenza dei Rohingya all’interno della Birmania – e soprattutto nei territori di confine con il Bangladesh e la Thailandia – è notevole e supera le 800mila unità.
In effetti, la Birmania è il maggior bacino di presenza, nonostante la loro sia più la storia di un’odissea che di una sistemazione stabile. E insieme al Myanmar è la Thailandia il principale luogo di raccolta, teatro di smistamento nella rotte degli schiavisti indocinesi, luogo di passaggio verso Indonesia e Malesia, terre promesse.
Promesse solo nei sogni, però: sono state ritrovate numerose fosse comuni al confine fra Thailandia e Indonesia, a testimonianza di una realtà tanto sconvolgente quanto poco conosciuta.
Ultimamente a questa prima rotta terrestre se n’è aggiunta una seconda, marittima. I Rohingya vengono ammassati su barconi sulle coste birmane e lasciati alla deriva a largo del Mar delle Andamane.
Nessuno, in questa situazione disperata, vuole farsi carico della loro accoglienza.
Condotta condannata duramente dall’ONU, che si ricollega senza troppa difficoltà a quella di Tony Abbott nella gestione dell’isola di Nauru.
Si stima che in 140mila siano in campi profughi.
Nel frattempo, il governo birmano ha dichiarato che non ci sono prove che si stia commettendo un genocidio, mentre Aung San Suu Kyi non ha ancora rilasciato dichiarazioni. In molti si domandano se il suo silenzio stia acconsentendo ad una strage, cosa che apparirebbe alquanto grottesca, almeno se si tiene conto della sua storia personale.
Se durante la campagna elettorale un simile comportamento poteva, forzatamente, trovare una motivazione nella necessità di non perdere voti, ora è pressoché inammissibile, soprattutto per una difenditrice di diritti umani e leggi come lei.
La speranza dei nazionalisti più convinti è che i “bengalesi” – così vengono chiamati in modo dispregiativo i Rohingya – se ne vadano tutti. Ma se davvero finirà così, ad andarsene sarà anche il prestigio pacifista di Aung San Suu Kyi.