Del: 16 Febbraio 2017 Di: Enrico Bozzi Commenti: 0

Il sessantasettesimo Festival di Sanremo ha inevitabilmente catalizzato l’attenzione pubblica e mediatica italiana nel corso della scorsa settimana.

Che piaccia o meno, il Festival è una di quelle rare certezze italiane, immancabile, una tradizione. Altrettanto tradizionali sono le polemiche che seguono gli ospiti, le esibizioni, abiti e conduttori, alimentate dalle decine di opinionisti che popolano i salotti televisivi più noti.

La diatriba di questa edizione, la più seguita sui social, ruota attorno a un tweet, quello di Caterina Balivo.

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 Il soggetto di queste critiche al vetriolo è Diletta Leotta, celebre giornalista di Sky, recentemente nota alle cronache per l’hackeraggio e la diffusione di immagini e video intimi ai suoi danni.

La 25enne, ospite di Carlo Conti, ha deciso di raccontare in prima persona la propria storia e ciò che ha comportato per la sua vita, ribadendo con forza il supporto a tutte le ragazze che come lei hanno subito una violenza del genere.

In Italia episodi del genere dovrebbero essere ben ricordati, basti pensare al caso di Tiziana Cantone, risalente ad appena qualche mese fa, tragicamente finita nel suicidio di quest’ultima.  La Leotta ha approfittato dell’occasione del palco dell’Ariston per dare un messaggio di coraggio e di speranza per tutte le persone vessate e umiliate in rete.

Stupisce quindi un pensiero come quello della Balivo, un refuso delle tristi correlazioni d’origine medievale tra abbigliamento e valori morali, tra bellezza estetica e meriti intellettuali, che aleggiano attorno alle figure femminili considerate appariscenti e sensuali, ma ancor di più stupisce che un tweet del genere sia stato scritto da una donna.

Dov’è quindi la cosiddetta “solidarietà femminile”? Possibile che un pensiero misogino del genere possa essere ancora oggi, nel 2017, permesso e accettato?

I commenti sul web consigliano un’agghiacciante risposta. In molti si dicono d’accordo con la presentatrice, peggio ancora, si collegano ad un’idea malsana, secondo la quale una donna si merita di essere violentata, picchiata, violata nella sua privacy, se si veste in un certo modo, se si comporta in una certa maniera, se nella sua intimità, nella sua sfera privata e sessuale, realizza con il proprio compagno filmati o immagini erotiche. Se lo merita, d’altronde.

La filosofia è quella delle imperanti community di Facebook, del quale fare i nomi sarebbe superfluo, del culto dell’ignoranza, del machismo, della misoginia e dell’omofobia, della caccia al diverso, ma soprattutto della cultura dello stupro, che spesso sfociano nel bullismo di massa, nelle azioni di gruppo squadriste: scambiarsi foto intime delle “cagne”, così definite in gergo da maschi di ogni età evidentemente frustrati, e commentarle è il fulcro di numerosi gruppi privati che gravitano attorno alle grandi pagine da milioni di iscritti.

A fronte di una situazione del genere, dinnanzi allo sdoganamento di presunti “valori” di degrado e violenza, stare dalla parte di chi subisce è un atto necessario.

Quella di Caterina Balivo non è un’opinione, come tanti hanno definito, ma semplicemente un’offesa gratuita. Ciò che ha scritto è semplicemente sbagliato, non permette interpretazioni, le parole di nessuno dovrebbero essere giudicate in base al proprio vestito o alla propria esteriorità, ma in quanto cariche del significato che portano.

La prevenzione per ciò che è accaduto a Diletta Leotta – e per ciò che accade continuamente a tante altre vittime – di hacking sta nel potere della pedagogia, dell’educazione, nel ricostruire una scala di valori per i quali ogni individuo va rispettato in quanto persona, sia esso uomo o donna.

Un’apologia, dunque, quella di Diletta Leotta, che in un mondo normale non dovrebbe averne neppure la necessità di difendersi. La libera scelta di schierarsi con chi ha deciso di vivere la propria vita come meglio crede, senza ferire nessuno, e di non farsi influenzare da chi ne vuole la messa alla gogna. La difesa a spada tratta di ciò che la parità sessuale ha ottenuto e alla quale non accetta di rinunciare, ma anche la conferma che questa non ha trovato una completa realizzazione, anzi, è ben lontana dal suo obiettivo.

Enrico Bozzi
Social Media Manager, studente di Scienze Umanistiche per la Comunicazione, apprendista stregone, aggiustatutto, tuttofare. Mi piace bere Negroni e darmi un tono.

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