
Dopo la sentenza del 24 gennaio la discussione intorno alla legge elettorale è nuovamente aperta. L’Italicum è stato modificato al punto da essere messo in dubbio dallo stesso partito che l’ha votato, il PD. In molti, fra cui Mattarella, hanno auspicato “un’armonizzazione” dei sistemi elettorali di Camera e Senato, attualmente discordanti. La messa in discussione dell’Italicum ha riportato all’ordine del giorno il dibattito su quale sia la legge migliore da adottare. Proporzionale o maggioritario? Soglia di sbarramento o no? Collegi uninominali o plurinominali? Ognuno dice la sua, proponendo una versione diversa ogni giorno.
La questione sulla legge elettorale non è una novità in Italia. In settant’anni di vita repubblicana siamo andati a votare con quattro sistemi diversi, le cui differenze l’uno dall’altro sono state spesso sostanziali.
Proporzionale, Legge “truffa”, Mattarellum, Porcellum e Italicum. Tutte con pregi e difetti – anche se in alcune i secondi oscurano i primi -, amate e odiate, hanno vissuto i loro momenti di gloria, passata e rediviva. Analizziamole nel dettaglio. In principio ci fu il proporzionale, pensato dai padri costituenti quale antidoto a eventuali derive autoritarie dell’esecutivo. La legge era molto semplice: a un certo numero di voti corrispondeva un numero di seggi parlamentari. Nessuna soglia di sbarramento, lista di candidati su scala nazionale e possibilità di esprimere fino a quattro preferenze. Un’enormità, se pensiamo alle leggi successive. C’era però un problema. In un sistema pluripartitico, il termine proporzionale è sinonimo di instabilità governativa. Le maggioranze nascevano e morivano in parlamento, generando esecutivi dalla durata effimera. Se ciò succedeva quando la DC prendeva il 40% e oltre, figuriamoci ora. Di questo difetto si accorse lo stesso De Gasperi, il cui governo n° VII diede alla luce – su iniziativa del ministro degli Interni Scelba- una nuova legge elettorale, rinominata dalla minoranza “legge truffa”.
L’infausto nome nasceva dal premio di maggioranza previsto: alla forza politica (partito o coalizione) che avesse superato la soglia del 50% spettava di diritto il 65% dei seggi. Venne usata una volta, nel ’53, ma fu subito abrogata. Il proporzionale non venne più messo in discussione fino agli anni 90’: tramite due referendum – nel ’91 e nel ’93 – gli italiani si espressero a favore di un sistema maggioritario. Ecco spiegata la nascita del Mattarellum, probabilmente la più complessa fra le leggi elettorali italiane, è da molti ritenuta la più efficace per garantire rappresentanza e governabilità. Scritta dall’allora onorevole Mattarella, univa maggioritario e proporzionale in un rapporto pari a 75-25, ovvero, il 75% dei parlamentari era eletto tramite collegi uninominali (come avviene in Inghilterra) mentre il restante 25% veniva smistato fra i partiti che avessero superato la soglia di sbarramento del 4% tramite un meccanismo chiamato “scorporo”. Esso prevedeva che alle liste della quota proporzionale venissero sottratti i voti dei candidati dei collegi, in modo da garantire una maggior rappresentanza di tutte le forze politiche. Un processo machiavellico che però non sempre ha garantito maggioranze stabili: nelle tre tornate elettorali in cui è stato adoperato, il Mattarellum ha fornito una maggioranza duratura solo nel 2001, a fronte comunque dell’ottimo risultato ottenuto dalla Casa delle Libertà di Berlusconi. In aggiunta, lo scorporo aveva favorito la nascita di liste “civetta” cui venivano collegati i nomi dei candidati dei collegi per evitare di perdere troppi voti nella lista principale.
La legge – abrogata nel 2005- venne sostituita dall’amato-odiato “Porcellum”. Pensato dall’ex ministro Calderoli, esso era di fatto un proporzionale con una correzione in senso maggioritario. Il guaio era questo: i criteri di assegnazione del premio di maggioranza erano diversi tra Camera e Senato. Alla Camera il partito o coalizione con la maggioranza relativa – indipendentemente dalla percentuale ottenuta – otteneva un premio pari al 55% dei seggi. Al Senato, invece, il premio era assegnato a livello regionale in un sistema per certi versi simile a quello americano. Ogni regione, a seconda della popolazione, aveva diritto a un certo numero di seggi, assegnati con criterio maggioritario al partito vincente: portare a casa un voto in più dell’avversario in Lombardia, per esempio, poteva cambiare di molto l’esito delle elezioni. A turno, tutti i principali partiti italiani ne condannarono la natura incostituzionale (nominati, liste bloccate, candidature multiple) ma si guardarono bene dal modificarlo.
La legge Calderoli era nata con lo scopo di favorire la nascita di grandi coalizioni: per i partiti che si presentavano da soli, la soglia di sbarramento era del 4% alla Camera e dell’8% al Senato; per quelli coalizzati invece la soglia era rispettivamente del 2 e del 3%.
Questo provocò la nascita di alleanze spurie destinate a breve vita. In termini di governabilità non si fecero dunque dei passi in avanti, anzi. Ancora una volta, solo una vittoria senza precedenti del PDL di Berlusconi nel 2008 garantì una maggioranza stabile.
Ultimo ma non ultimo, l’Italicum. Su questa legge è stato detto di tutto: se per Renzi era la riforma che tutti in Europa ci avrebbero copiato, per molti dei suoi detrattori – tra cui Valerio Onida, ex giudice della Corte Costituzionale – era da considerarsi peggiore dello stesso Porcellum. Nel suo disegno definitivo prevedeva: abolizione delle coalizioni, soglia di sbarramento del 3%, premio di maggioranza del 55% alla lista con almeno il 40% dei voti. Qualora nessuno avesse raggiunto tale soglia, il ballottaggio fra le prime due liste avrebbe decretato il vincitore delle elezioni. Su quest’ultimo aspetto la Consulta si è pronunciata negativamente, abolendolo del tutto. Il premio, attualmente, lo otterrebbe solo chi raggiungesse il sospirato 40%; altrimenti a ognuno il suo, come prima del 1993. A differenza del Porcellum, nell’Italicum si possono esprimere due preferenze (candidati di sesso diverso), anche se i capilista sono bloccati e possono candidarsi in più collegi. Anche su questo punto la Consulta ha storto il naso ma lo ha lasciato intatto, decretando che il collegio di elezione del candidato venga sorteggiato.
L’Italicum “corretto” ha però valore solo per la Camera: nel progetto di legge non era stato previsto un suo utilizzo al Senato in quanto, nelle intenzioni dell’ex premier, l’istituzione così concepita non sarebbe sopravvissuta al 4 dicembre. Dunque, per la camera alta resta in vigore ciò che rimane del vecchio “Porcellum”, depurato dalla Consulta di ogni velleità maggioritaria. A conti fatti, se andassimo a votare domani, le urne non riuscirebbero a decretare un vincitore, aprendo a una nuova stagione di larghe intese.
L’instabilità creatasi nel 2013 è ben lontana dall’essere risolta e le prospettive all’orizzonte sono tutt’altro che rosee. Chi punta a votare al più presto lo fa sapendo che non ci saranno i tempi necessari affinché una nuova proposta di legge venga condivisa e promulgata. Chi vuole rimettere la questione all’ordine del giorno deve fare i conti con l’agenda di governo, solitamente restia a trattare queste tematiche. Il guaio è che continuando a rimandare, si rischia di prolungare la legislatura fino al suo decorso. A quel punto, forse, i partiti si ricorderanno di quello che accadde cinque anni prima, ma per allora sarà troppo tardi.