Del: 27 Febbraio 2017 Di: Letizia Gianfranceschi Commenti: 0

Nell’Africa dei Grandi Laghi qualcuno li chiamati zeru zeru – fantasmi. A qualcun altro, invece, è stato dato il nome di mzungu – uomo bianco. Qui, ancor più che altrove, non c’è mai stata pace per le “persone affette dal albinismo”, termine che loro stesse preferiscono al più comune, ma dispregiativo, “albini”.

L’albinismo non è una tara ereditaria, paragonabile all’alcolismo che affligge i personaggi dei romanzi di Zola. È piuttosto un’anomalia genetica, che si manifesta quando il gene che produce la melanina subisce una mutazione, causando l’assenza o la riduzione della melanina nella pelle, nei capelli, nei peli e negli occhi. La maggior parte dei tipi di albinismo è autosomica recessiva. Ciò significa che, perché sia manifesta e non latente, occorre che entrambi i genitori trasmettano un allele mutato. L’esatta incidenza di questa malattia non è chiara, ma le statistiche rivelano che in queste terre è particolarmente elevata: se in Danimarca ne soffre una persona su 60.000, in Nigeria la frequenza è di 1 su 1100, in Tanzania di 1 su 3000, in Sudafrica di 1 su 3900.

Le narrazioni popolari dominanti nelle società africane ignorano qualsiasi definizione scientifica della malattia: considerano più attendibile la superstizione.

Unyapanyapaa in lingua swahili significa stigma. Quello che viene attribuito delle persone affette da albinismo nell’Africa orientale è legato a miti e false credenze tramandati di generazione in generazione.

Sugli albini hanno inventato che non muoiono mai; che i loro arti possono portare ricchezza e potere; che sono nati da un uomo bianco in una famiglia nera; perfino che avere rapporti sessuali con loro può curare l’HIV.

Secondo una ricerca condotta dal Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Nairobi, gli albini africani sono vittime di un processo di social and cultural labelling che ha contribuito a cristallizzare la rassegnazione di queste persone alla propria condizione e a condannarli a quella che è stata definita un’esclusione “bio-culturale”. Per questo, negli ultimi anni, tuttavia, gli albini africani hanno cominciato seriamente a temere per la propria sopravvivenza. Ai problemi fisici come il rischio di cecità e le possibili conseguenze dell’esposizione al sole – ustioni, vesciche, ulcere superficiali, tumori della pelle -, si sono aggiunti gli attacchi sanguinosi e brutali condotti con il machete dagli albino hunters. Questi attacchi non sono una novità, ma negli ultimi mesi il loro numero elevato e la loro efferatezza hanno suscitato l’interesse dei media internazionali. Secondo un rapporto di Amnesty International, lo scorso aprile è stato il mese più sanguinoso in Malawi: quattro persone sono state uccise.

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In Tanzania gli infanticidi sono particolarmente frequenti. Gli uomini della famiglia si riuniscono e decidono di commettere gli infanticidi quando i bambini sono nati da pochi giorni, in modo da poter far credere al resto della comunità che ameruda ndai: il bambino è tornato indietro ancor prima di nascere. Ma anche se la gente lo sapesse, cambierebbe qualcosa? Dopo tutto l’atto è stato commesso per evitare kuepuka mikosi – le sfortune.

Nell’Africa sub-sahariana le parti del corpo degli albini sono più preziose dell’avorio degli elefanti.

Così un commercio macabro e fiorente coinvolge gli stregoni e i loro seguaci in una rotta insanguinata che attraversa Tanzania, Malawi e Mozambico. In un rapporto del 2009, la Croce Rossa ha rivelato che le parti del corpo delle persone affette da albinismo possono arrivare a costare 75.000 dollari. Anche se, come riportato dall’Economist, il governo del Malawi ha più volte accusato sciamani stranieri di essere responsabili degli attacchi, recentemente Amnesty International ha denunciato il Malawi di negare le responsabilità delle autorità e il loro fallimento nella protezione dei cittadini albini.

L’albinismo in Africa è anche una questione di genere. Le mamme dei bambini albini sono spesso ripudiate dai mariti, che le accusano di averli traditi con uomini bianchi, di essere sporche e maledette, di essere streghe.

L’attenzione dei media internazionali sul destino degli albini africani e le recenti risoluzioni della Commissione africana sui diritti dell’uomo e dei popoli, nonché del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, sembravano aver avviato un’epoca di cambiamento. Il governo della Tanzania nel 2015 ha dichiarato illegale la stregoneria e fatto arrestare 200 witchdoctors. All’inizio dell’anno, l’organo legislativo dell’East African Community, un’organizzazione intergovernativa che riunisce i sei paesi dei Grandi Laghi, ha approvato una legge che vieta la discriminazione nei confronti delle persone affette da albinismo. Ad ottobre in Kenya è stato perfino organizzato il primo concorso di bellezza, intitolato Beauty beyond the skin, per persone affette da albinismo.

Gli albini africani sanno che non è abbastanza. Vorrebbero che gli fosse garantito il godimento dei diritti fondamentali all’istruzione, alla salute, all’assistenza sociale. Vorrebbero una società più inclusiva, senza pozioni, amuleti, stregoni e streghe, ma sanno anche che altrove, come scrisse Voltaire nelle Lette filosofiche, le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle.

Letizia Gianfranceschi
Studentessa di Relazioni Internazionali. Il mondo mi incuriosisce. Mi interesso di diritti. Amo la letteratura, le lingue straniere e il tè.

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