Del: 19 Febbraio 2017 Di: Marco Canal Commenti: 0

Pochi o, più probabilmente, nessuno mai si sarebbe immaginato che un libro di 700 pagine dense di teoria economica, dal magniloquente titolo “Capital in The Twenty-First Century”, avrebbe venduto circa 3 milioni di copie in 3 anni. Il perché non è facile da capire, ma si può tentare.

Due delle conclusioni del libro alle quali giunge Thomas Piketty, l’autore di tale mastodontica opera, sono le seguenti:

  1. Le diseguaglianze risultano da scelte politiche piuttosto che da mutamenti economici o tecnologici deterministici.
  2. Con il passare del tempo, le economie non evolvono naturalmente verso una distribuzione di risorse più egualitarie.

La seconda conclusione si basa sulla analisi di trend che vanno indietro di decenni o secoli a seconda della disponibilità dei dati – che cambia da paese a paese – che mostrano come, nella storia del mondo, i periodi in cui le diseguaglianze economiche si sono ridotte sono avvenuti in coincidenza di guerre o eventi di simili portata distruttiva. Un’eccezione a questo pattern è il periodo dal 1945 al 1975 circa quando, nel mondo Occidentale, la percentuale del reddito totale appropriato dal top 10% o top 1% o addirittura top 0.1% diminuisce drasticamente, pur non essendo in concomitanza con nessun evento bellico.

La spiegazione che Piketty dà è la nascita – o l’espansione, a seconda del paese preso in considerazione – del welfare state e ciò che ad esso si accompagna: l’aumento di potere dei sindacati, l’istituzione di salari minimi, una tassazione estremamente progressiva, che va oltre il 90% per la fascia più piccola e più in alto nella distribuzione dei redditi. In questo modo, ci si collega alla prima delle due conclusioni: il potere dei sindacati, il salario minimo e la tassazione progressiva sono scelte politiche e, di conseguenza, le disuguaglianze, se presenti, sono presenti per scelta.

Le disuguaglianze che vediamo, dunque, attorno a noi, sempre secondo il ragionamento di Piketty, sono originate da due dinamiche distinte:

  1. La disuguaglianza a livello di redditi da lavoro.
  2. La disuguaglianza a livello di redditi da capitale, inteso come tutto ciò che non sia lavoro che genera redditi: capitale fisico, terra e asset finanziari (obbligazioni, azioni, ecc…).

Sebbene non sia sempre valida e, se valida, non in tutti i paesi allo stesso modo – ad esempio, negli Stati Uniti la ragione principale delle diseguaglianze negli ultimi 30 anni è l’esplosione degli stipendi dei top-managers delle aziende più grandi- , Piketty ritiene, dati storici alla mano, che

il driver fondamentale delle disuguaglianze sia comodamente ed efficacemente raffigurato dalla diseguaglianza R>G, dove R rappresenta il tasso di ritorno guadagnato su tale “capitale” (profitti, dividendi, rendite, semplici plusvalenze ecc) e G il tasso di crescita dell’economia.

Di per sé, se il capitale fosse equamente suddiviso tra tutti, la cosa sarebbe perfettamente ininfluente sui livelli di distribuzione delle risorse, dato che tutti beneficeremmo egualmente di tali “ritorni”. Il problema è che, in pratica, le cose non sono affatto così: ad esempio, negli Stati Uniti il 10% delle famiglie più ricche detiene il 70% del capitale, l’1% il 35% e la metà più povera il 5%. Quando i redditi da capitale crescono più velocemente dei redditi da lavoro, le famiglie più ricche ne beneficiano in maniera totalmente sproporzionata.

Una volta assodato che “Capital” è già diventato un classico dell’economia, bisogna riconoscere che anche questo, come tutti i libri, non è perfetto. Partendo prima dagli aspetti positivi, di indubbio valore sono i dati contenuti, che stanno alla base dell’intero ragionamento, senza contare il framework che l’opera dà per pensare alle diseguaglianze, sia con uno sguardo rivolto al passato sia in ottica futura. Infine, le fondamenta gettate per un dibattito globale sull’argomento grazie al suo inaspettato successo.

Il libro giusto al momento giusto, verrebbe da dire.

Tuttavia, c’è un terzetto di considerazioni critiche che non possono non essere mosse. Primo e più importante, la sproporzione della trattazione economica rispetto a quella politica: se, effettivamente, le diseguaglianze hanno origini politiche, abbiamo una trattazione teorica della parte economica ma non di quella politica – non esiste un contraltare di R>G della politica – e avere, se non altro, qualche indicazione su come i movimenti sociali e politici si evolvano in risposta ad un aumento di diseguaglianze sarebbe stato appropriato.

Secondo, la parte di policy-proposals veleggia tra il banale e l’improbabile, un vero peccato data la natura del problema e i danni che le disuguaglianze possono creare.

Terzo, in un mondo che sembra navigare placidamente verso quella che Larry Summers e Robert Gordon chiamano “stagnazione secolare”, una teoria che ha alla base dei tassi di interesse a zero o negativi, mostrare come la teoria di R>G sia comunque rilevante per questi tempi e i futuri sarebbe stata ben accetta.

Detto tutto ciò, “Capital” riassume quasi vent’anni di ricerca da parte di Thomas Piketty e il suo principale co-autore/amico Emmanuel Saez, probabilmente futuri vincitori del Nobel per le scienze economiche. È, pertanto, un libro di immenso valore, di grande aiuto per capire la scena globale e gli sconvolgimenti politici di cui si legge sulle testate giornalistiche. La storia di Brexit e Trump è, indirettamente, la storia di questo libro.

 

Marco Canal
Aspirante economista, lettore, amante dei dibattiti intellettuali e gin&tonic, alpinista, film il pane, viaggio il vino e i Pink Floyd come religione. Pecca di insaziabile curiosità, battuta facile, smodata ambizione e decisione. Alea iacta est.

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