In nome dell’artista Keith Haring, troppo a lungo interpretato come semplice graffitista – forse anche per ridurne la portata artistica – era necessario, se non doveroso, il tentativo che emerge dalla mostra di Palazzo Reale, di restituirgli il rispetto che meritava. Da ieri e fino al 18 giugno 2017, grazie a prestiti provenienti da tutta Europa, Giappone e Stati Uniti, sarà possibile ammirare 110 opere dell’artista newyorkese che racchiudono il meglio della sua produzione, tutta sviluppata nel solo decennio degli anno Ottanta.
La mostra Keith Haring. About Art che inaugura la stagione di Palazzo Reale del 2017, è curata da Gianni Mercurio e si prefigge di valorizzare la profonda preparazione culturale e la poliedricità di Haring. Questo è possibile attraverso una lettura retrospettiva della sua opera, alla luce del fecondo rapporto che ebbe con la storia dell’arte nella sua eterogeneità, ma anche con il panorama culturale, letterario e musicale dei suoi anni.
Propria del personaggio, infatti, fu la capacità di sviluppare una sintesi fra la cosiddetta “cultura alta”, l’arte concettuale, e quella “bassa” diffusa attraverso la Pop Art e alla portata di tutti, abilità questa, che gli permise di fare della sua arte un vero e proprio brand. In maniera semplice e leggera , senza mai essere superficiale, Haring riuscí, allo stesso tempo, ad affrontare le questioni sociali della sua epoca (droga, razzismo, Aids, minaccia nucleare, alienazione giovanile, arroganza del potere) e a partecipare ad un sentire collettivo parlando, in maniera universale e da tutti comprensibile, degli eterni temi umani quali vita, morte, amore, malattia, gioia.
Le sette sezioni in cui è suddivisa la mostra, strutturata per focus tematici e non seguendo un ordine cronologico, partono dall’Umanesimo per giungere al cartoonism, intrecciandosi alla ricerca dei linguaggi e delle relazioni fra le varie epoche che lo hanno ispirato. Per la prima volta poi, lungo il percorso espositivo, i graffiti, le tele e le sculture di Haring sono affiancate e confrontate con le produzioni artistiche a cui si è rifatto tra cui pezzi provenienti dalla tradizione classica, tribale, precolombiana e che vanno da quadri di Picasso, Klee e Pollock fino a maschere delle culture del Pacifico e ai calchi della Colonna Traiana. Tutti stimoli creativi senza i quali l’immaginario unico del “graffitista” non sarebbe stato lo stesso.
Al centro resta sempre l’uomo, considerato contemporaneamente nella sua veste individuale e in quella più collettiva. Le sue opere infatti sono costellate di figure antropomorfe che, proprio in nome della loro indeterminatezza, sono sempre rappresentate in maniera anonima e stilizzata; i classici “omini senza faccia” grazie ai quali Keith è diventato famoso. Questo perchè, secondo il suo pensiero, per quanto possa cambiare il contesto in cui ci troviamo e trascorrere le epoche storiche, l’uomo resta sempre uguale a sé stesso, nello stesso modo in cui anche nell’arte
nulla è unicamente legato ad un tempo specifico, ma può sempre ritornare attuale e, per usare le sue parole: «Io non sono un inizio, non sono una fine. Sono un anello di una catena».
Promossa e prodotta dal Comune di Milano Cultura, Giunti Arte mostre musei e Gruppo 24 ORE, in collaborazione con Madeinart e la Keith Haring Fundation, la mostra fa parte di un progetto più ampio (in continuità con l’esposizione su Basquiat al MUDEC) che racconta un’altra faccia del linguaggio artistico, con focus sull’ultimo ventennio del secolo scorso in America. Sarà inoltre inserita nel calendario di Artweek, in occasione di Miart 2017, fra il 27 marzo ed il 2 aprile.