Giovanni Sommazzi
Lavorare sull’Inferno dantesco è un’arma a doppio taglio: se da un lato l’inesauribile potenzialità del testo promette interpretazioni virtualmente illimitate, dall’altro c’è l’onere di farsi spazio in una selva di precedenti artisti, drammaturghi, filologi e attori che abbiano detto sulla Commedia. Quale inferno è il tentativo di estrarre una musica insolita dal poema, una sonorità varia, che entra ed esce dal tracciato ritmico dell’endecasillabo, seguendo l’estro di una propria licenza poetica. L’operazione è curiosa, distante dalle interpretazioni espressivamente cupe di Gassman e Benigni. Non si propone nemmeno come una prospettiva esegetica sul testo, si pensi ad esempio a Sermonti, qui l’intento è prettamente formale, di scavo musicale. Padre di questo approccio è Carmelo Bene, con le sue recitazioni dalla torre degli asinelli di Bologna nei primi anni ottanta. Forzare musicalmente il testo, per scoprici dentro una voce nuova, espressivamente potente, stralunata a volte.
Quale inferno però, pure condividendone l’approccio, si muove con una spensieratezza singolare nelle bolge infernali, priva di gravità, qui sta il suo carattere.
Un voce, quella di Marica Mastromarino, dialoga con una chitarra, suonata da Nicola Savi Ferrari, disegnando un percorso dell’orecchio che scandisce la discesa, fisica e metafisica, giù per le cerchie. La chitarra accompagna, ma non sempre dietro la voce, ora la precede ora si mette al suo seguito, in un gioco inseguimenti, fughe e riprese che si liberano in esperimenti sonori. Nei momenti più riusciti della ricerca musicale, il testo, scandito nella sua forza poetica dalla dizione ferma e accogliente di Marica, soffoca il proprio flusso, si coagula in singhiozzi di suono, gutturali lamenti infernali, risate isteriche, derive di puro rumore. Stride a volte l’arrangiamento musicale col tessuto emotivo della narrazione, come quando la tragica fine del conte Ugolino è resa con inaspettata leggerezza musicale; il risultato è straniante. Quale inferno è uno spettacolo agile, spensierato e – perché no? – capace d’intrattenere. Il poema dantesco trabocca nel teatro in una gestualità minima. Marica e Nicola, Dante e Virgilio, sono praticamente immobili sul palco. Tutta l’azione si concentra nell’ordinata gestualità di lei, si scambiano appena qualche sguardo, un sorriso, e proprio così, riducendo l’azione al minimo, riescono a evocare attraverso la musica spiriti nuovi da un inferno che ci è familiare.