Kevin McElvaney è un fotografo e fotoreporter tedesco, di Amburgo. Tra i diversi generi fotografici che ha affrontato, si stagliano i suoi progetti sull’attuale crisi migratoria, che ha seguito sia sulla rotta balcanica sia nelle isole greche.
Nel corso del dicembre 2016 si è imbarcato sulla nave Acquarius dell’ONG SOS Méditerranée e ha passato tre settimane a soccorrere e fotografare i migranti che cercano di raggiungere l’Europa lungo la rotta mediterranea.
Il suo intento nello sviluppo di questo progetto è ben espresso da un post pubblicato poco prima di partire: «In quest’epoca avvilente non voglio dirvi cosa bisogna pensare, ma voglio che apriate i vostri occhi- questo è il motivo per cui scatto fotografie e questo è il motivo per cui sarò sulla nave.»
(L’intervista è stata editata per brevità e chiarezza)
Come sei entrato in contatto con SOS Méditerranée?
La relazione tra me e SOS Méditerranée nasce dalla mostra che hai visto anche tu, #RefugeeCameras. Il progetto è stato esposto in molti luoghi e per ogni esposizione abbiamo guadagnato dei soldi che non volevo entrassero nelle mie tasche, così ho iniziato a cercare delle organizzazioni a cui donarli e ho incontrato, più o meno per caso, una ragazza di SOS Méditerranée, una fondatrice. Ai tempi la via balcanica era diventata molto difficile da percorrere, oltre che molto meno frequentata. Allora ho deciso di donare i miei soldi per aiutare i volontari che si occupano della via del Mediterraneo. Inoltre non volevo che i soldi finissero ad una grande organizzazione come UNHCR. Insomma mi piaceva il progetto di SOS Méditerranée ed è così che ci siamo conosciuti ed è iniziato il nostro rapporto. L’idea di fondo era:”visto che vi dono i miei soldi, un giorno, mi piacerebbe vedere da vicino il vostro lavoro, mi sembrate una bella organizzazione. Se si libera un posto da fotografo su una nave fatemi sapere che vi raggiungo”.
Alla fine il posto si è liberato a fine dicembre nel periodo che comprende Natale e Capodanno, così li ho raggiunti e mi sono imbarcato con loro.
Qual è la differenza negli obiettivi, se ce n’è una, tra questo progetto e #RefugeeCameras?
#RefugeeCameras aveva più lo scopo di dare la voce e la forza della fotografia ad altri, ai rifugiati stessi. Intendo dire, si trattava più o meno della stessa crisi migratoria, ma su un itinerario diverso…
Mi ricordo che l’ultima volta che ti intervistai ( Kevin McElvaney era già stato intervistato dall’autore in occasione dell’esposizione di #RefugeeCameras al Milano Film Festival, a settembre 2016, ndr.) mi dicesti che avevi intenzione di prenderti una lunga pausa da questa crisi e che volevi occuparti di progetti totalmente diversi. Poi, tre mesi dopo, ho visto…
“Oh ma guarda! Si è imbarcato!” Eh sì! (ride) La vita va così. L’anno scorso ho esposto #RefugeeCameras una decina di volte e ho iniziato a non poterne più di questo argomento. La prima volta che ho presentato #RefugeeCameras è stata ad aprile 2016 e poi è stata in mostra plurime volte, quindi non è che sia stufo dell’argomento, però sapevo che era abbastanza. Insomma nella tua mente qualsiasi tema, prima o poi, raggiunge un livello in cui tu stesso sai che determinate tematiche devono riposare un po’ perché, altrimenti, le persone non prestano più attenzione agli argomenti dei tuoi lavori.
Finisce che la gente ti dice “sì va bene i rifugiati, storia trita” e poi non sanno nemmeno la differenza tra via balcanica e via del Mediterraneo.
L’altra differenza è che #RefugeeCameras per me è stato più una sorta di esperimento sociale. Avevo consegnato delle fotocamere usa e getta e volevo vedere se mi sarebbero tornate indietro. Lo scopo era più che altro documentale. Inoltre questo progetto, quello con SOS Méditerranée, si distingue anche da quello che trattava dell’accoglienza a Lesbo. Lì il retropensiero era sempre:
“posso stare a Lesbo uno, due, tre giorni, ma posso sempre prendermi un biglietto quando preferisco e in due ore tornare in Germania”.
Dalla nave, invece, non puoi scendere quando vuoi. Poi per tornare alle differenze tra questo progetto e #RefugeeCameras, una distinzione importante è che io non sono un migrante mentre gli autori delle fotografie di #RefugeeCameras erano refugees. Però questa è una risposta troppo semplice alla tua domanda.
Un articolo dell’ Economist, “The new political divide” afferma che, politicamente, il mondo si divide sempre più negli schieramenti aperto contro chiuso e sempre meno in schieramenti sinistra contro destra. Le persone a favore di un mondo aperto come possono convincere i fautori di un mondo chiuso della bontà delle loro idee?
Penso che la parte idiota della questione sia che le persone non possono essere forzate ad essere aperte. Penso che essere aperti o chiusi dipenda dai sentimenti delle persone. Non è una decisione razionale, non è una decisione che viene fatta col cervello.
Io seguo un sentimento, sono aperto per istinto.
In ogni caso le persone aperte dovrebbero cercare di capire i sentimenti degli altri. Odio affermazioni come “sei fatto così, hai questa opinione, sei solo uno stronzo”. Spesso non si tengono discussioni costruttive, di norma il dibattito assume toni del genere “ guarda quanto sei idiota, fai schifo, ti odio” e così la conversazione termina e non c’è ritorno da dichiarazioni del genere. Penso che essere aperti sia molto legato a quanto viaggi a quanto, in giovane età soprattutto, sei stato in contatto con altre culture. Invece le persone chiuse, parlo della mia esperienza personale, tendenzialmente sono quelle persone per cui è già una cosa folle andare una volta all’anno in un villaggio vacanze a Maiorca. Penso che quello che ci serva sia di entrare più in contatto, non dico nemmeno altre culture, ma anche solo con altre lingue. Spesso mi capita di capire le persone chiuse. Mi è capitato di sentire grida folli in arabo e in quei momenti può capitarti di avere paura. Poi fai mente locale e, grazie all’esperienza pregressa, comprendi la situazione e ti calmi. Non oso immaginare però, se a volte certe situazioni incutono timore a me, quali possano essere le reazioni di chi non ci è abituato.
In generale penso che il nocciolo della questione siano i sentimenti, non i pensieri. Se, per esempio, non me la sento di viaggiare in Italia non me la sento e basta. Penso che le persone dello schieramento aperto dovrebbero cercare di essere più empatiche con lo schieramento opposto invece che andare a muso duro con argomentazioni tipo:” SONO UMANI ANCHE LORO, STRONZO!”, in questo modo le conversazioni prendono pieghe sbagliate. Se, invece, lasci il tempo alle persone di riflettere e che capisci la loro esigenza di proteggersi, poi puoi dimostrare loro, dati alla mano, che nessuno sta invadendo l’Europa per stuprare le loro mogli e i loro bambini.
A che punto è giunto il dibattito sui rifugiati in Germania?
In questo momento quello che si sta discutendo è cosa fare dei rifugiati, insomma quale sarebbe il modo migliore per integrare i rifugiati che ormai sono in Germania da un anno.
Ci si chiede come può evolvere la loro situazione e come possiamo fare per farli stare meglio. La Merkel nel 2015 disse “ tutti dentro”, ma ora si sta realizzando che le parole non bastano, servono anche i fatti. Non si possono lasciare persone giovani e motivate con le mani in mano tutto il giorno. I rifugiati hanno bisogno di essere integrati nel tessuto sociale, hanno bisogno di un lavoro perché la mancanza di lavoro produce frustrazione e questa frustrazione potrebbe trasformarsi in un problema per la società in qualche anno.
Ora stiamo affrontando le conseguenze della politica del “tutti dentro” e si sta cercando di capire quale può essere il prossimo passo da fare.
Il primo passo è semplice, si consegna una casa o li si mette in un centro d’accoglienza, ma gli uomini hanno anche altri bisogni come il lavoro e lo sviluppo personale. Se si guarda indietro, nella storia, si capisce che agli eventi migratori non si possono dare soluzioni semplici, però ci sono tante piccole cose che possono essere fatte e ci stiamo muovendo in questa direzione.
Al festival di un famoso periodico italiano ho avuto occasione di assistere a una conferenza in cui tre fotografi presentavano i loro progetti sulla crisi migratoria. Tutte le fotografie erano in bianco e nero ed erano caratterizzate da una forte ricerca estetica. Non è poco rispettoso ricercare il lato artistico di una tragedia umana come quella dei migranti?
Mi piace prestare più attenzione possibile alla ricerca estetica, sia che stia scattando fotografie per una pubblicità sia che siano fotografie d’altro genere. La maggior parte delle mie fotografie presentano un contatto visivo, di modo che possano rendersi conto che le sto fotografando.
Poi un altro punto che mi sento di aggiungere è: dovrei mancare loro di rispetto ritraendoli in fotografie in cui appaiono orribili? Questo è l’altro estremo dello spettro. Ho la sensazione che le persone si immergano più volentieri nel passato del soggetto della fotografia, se questi è ben rappresentato esteticamente. Insomma bisogna trovare l’equilibrio giusto.
Inoltre, lo spettatore stesso è consapevole che certe fotografie arrivano da determinati scenari e non dalla pubblicità di Hugo Boss. In realtà, devo dire, mi hai appena fatto realizzare che da un lato mi piace la ricerca estetica e dall’altro non vorrei mai che una persona che si guarda in una mia fotografia abbia repulsione di se stesso. Preferisco, quindi, scegliere soggetti in pose eroiche o comunque prediligo le immagini positive a quelle negative.
Quando un fotografo scatta foto di guerra, o genericamente di catastrofi, dovrebbe solamente dare importanza al valore documentale delle sue foto oppure gli è, eticamente, concesso di prestare attenzione al punto di vista artistico?
Penso che per le fotografie che devono essere semplici documenti ci siano già i fotografi dei giornali. Poi, in realtà, loro sono soprattutto testimoni oculari. A dire il vero, alla fine, siamo tutti testimoni oculari. E, allo stesso modo, alla fine siamo anche tutti artisti.
Però, se sei un newsphotographer sei più portato ad avere l’occhio da documentario mentre se sei un freelance e non produci, almeno non in prima istanza, per i giornali sei, forse, più portato a curare gli aspetti estetici delle tue foto. Poi, in realtà la combinazione di questi due aspetti non deve per forza essere in un singolo fotografo, questi due aspetti si dividono nell’intero insieme dei fotografi, ognuno segue la sua strada, poi è interessante vedere le diverse prospettive.
Io, però, ricordo che l’esposizione #RefugeeCameras era articolata così: c’erano due muri, uno in fronte all’altro. Su un muro c’erano le fotografie scattate dai profughi con le macchine che gli avevi inviato tu, sull’altro alcune foto sulla stessa crisi ad opera di fotografi importanti.
Al tempo, mi dicesti che lo scopo di #RefugeeCameras era di avere fotografie piuttosto sfocate e brutte, ma con un valore documentale che fotografie troppo curate dal punto di vista estetico.
Quando le crisi o le catastrofi sono ai loro inizi, le persone tendono a ritrarle nello stesso modo e c’è sempre quel momento in cui le cose si placano un po’ e dove l’arte ha più occasione di emergere.
Bisogna indagare da diverse angolazioni e da diverse prospettive.
Accade spesso che, quando una crisi è agli inizi, si abbia bisogno di più documentazione, però alla fine #RefugeeCameras è un progetto che unisce un intento artistico, nato dal fatto che ero stanco di vedere questa crisi migratoria ritratta sempre nello stesso modo, ad un intento, effettivamente, documentale. Questa è la ragione per cui ho seguito questo progetto. Non sono interessato a scopiazzare le idee di altri fotografi, voglio cercare di fare cose nuove.
Qual è il miglior fotoreportage su questo decennio di crisi migratoria, a tuo avviso?
Mi piacciono molto i lavori di Daniel Etter, è un fotografo che rispetto molto. Lui aveva iniziato nelle isole greche , non solo Lesbo, penso le abbia attraversate quasi tutte. Tra l’altro era a Idomeni nel momento giusto. Comunque mi piace trarre ispirazione dall’intero corpo di fotografie sulla crisi, non mi piace focalizzarmi su un singolo autore. Alla fine mi piacciono i lavori di quei fotografi che ho esposto in #RefugeeCameras.
Quindi più che a singoli fotografi sei interessato a poche fotografie di tanti fotografi?
Sì! Non esiste un fotografo che da solo potrebbe ritrarre una crisi come questa. Quella di coprire una crisi come questa da soli è una richiesta eccessiva. Io penso che avvenimenti storici come questo debbano essere ritratti da più angolazioni possibili. Non esiste una prospettiva più giusta delle altre.
Un’ultima domanda, che ti chiedo in qualità di testimone oculare e non di fotografo. In Italia, nelle ultime settimane, c’è stato molto dibattito e alle navi di volontari che soccorrono i migranti è stata rivolta l’accusa, respinta con forza da Medici senza Frontiere, di avvicinarsi più di quanto sarebbe lecito alle coste libiche per recuperare i migranti. Vorrei che tu respingessi queste accuse.
Sì, è un’accusa assurda. Le navi di SOS Méditerranée rimangono al di fuori del confine delle 20 miglia e operano in acque internazionali. Inoltre in acque internazionali, se si è vicini ad una barca che sta affondando non si ha solo il diritto di soccorrerla, ma se ne ha anche il dovere. Inoltre non sono solo navi di civili ad operare nel mediterraneo, ma anche le navi militari irlandesi, inglesi, tedesche e italiane. La ragione principale per cui esistono operazioni di soccorso gestite da volontari è che ci siano testimoni oculari e ci siano fotografie. Nessun fotografo si è mai imbarcato su navi militari o sulle navi della guardia costiera e non penso potrà mai succedere.
Organizzazioni come Seawatch esistono per controllare cosa succede, solo col tempo sono nate missioni di ricerca e soccorso come SOS Méditerranée. Se le persone non credono alle mie parole, possono andare su vesseltracker.com e possono controllare che rotte prendono le navi di soccorso. Nessuno va oltre le 20 miglia dalla costa libica. In primo luogo sarebbe contrario al diritto internazionale, in secondo luogo si ha il terrore delle milizie libiche. ( Ed è questo il motivo, oltre a come sono state determinate le SAR-zones, per cui i migranti vengono portati tutti in Italia N.d.R.). Nessuna di queste operazioni di soccorso gestite da civili è interessata ad avvicinarsi alla costa, se lo facessero sarebbero messi in prigione e, a quel punto, nemmeno a torto.
Se, però, trovi dei barconi in acque internazionali hai il diritto e il dovere di soccorrerli.
Un’altra accusa che viene fatta è quella che le navi delle ONG aspettino esattamente al di fuori delle acque nazionali, così che i barconi debbano semplicemente raggiungere il ventunesimo miglio per essere soccorsi. Ha avuto molto successo, di recente, il video di uno youtuber, Luca Donadel, che con argomentazioni molto deboli (che sono state confutate da un puntuale articolo di Leonardo Bianchi per Vice Italy N.d.R.) sembra, implicitamente, supportare la tesi che i migranti sono trasportati apposta in Italia per fare gli interessi delle cooperative che gestiscono l’accoglienza o quelli di chi sfrutta i migranti come lavoratori nei campi o nella prostituzione.
Dietro ai problemi della prostituzione e del caporalato penso che, più che altro, ci sia la mafia. Poi è chiaro che tra le persone che soccorri, spesso, ci sono anche trafficanti che cercano di usare la via più breve per arrivare in Europa, questo è un aspetto intricato che le organizzazioni umanitarie ancora devono risolvere, però non fermi le organizzazioni umanitarie perché ogni duecento migranti che salvi tre o quattro sono dei criminali.
Allo stesso modo non posso guardare in faccia una persona e dire: “bene, bene, sei nigeriana, donna, giovane, c’è un buon 80% di probabilità che tu finisca nel giro della prostituzione, quindi, per favore, tornatene indietro”. Non si possono risolvere questi problemi in mare ed è un diritto di base quello di poter chiedere asilo. La decisione di rimandare indietro alcune persone è una decisione che va presa in Italia.
La stessa cosa vale per le cooperative, non posso pormi in mare la domanda: “Questi profughi finiranno in un centro d’accoglienza di una cooperativa collusa con la mafia che li alloggerà in condizioni pessime per guadagnarci?”.
Prima si soccorre e poi si pensa al resto.
Certo, può essere successo che qualche barcone fosse appena al di fuori dalle 20 miglia, però, posso assicurare che i barconi non vengono diretti dalle navi di salvataggio. Mi ricordo che in un giorno di tempo serenissimo, era ancora molto difficile rintracciare questi barconi. Quel giorno andavano soccorsi cinque barconi e pensavamo li avremmo trovati facilmente, invece, siamo riusciti a soccorrere solo tre barconi su cinque e degli altri due non abbiamo trovato né resti dell’imbarcazione né corpi. A volte non li vedi nemmeno a due chilometri di distanza, oppure confondi i barconi con le onde. Posso assicurare che le navi di soccorso non stanno in agguato fuori dalle acque territoriali libiche e che i rifugiati non arrivano al ventunesimo miglio e saltano sulle navi di soccorso.
Le operazioni di soccorso sono veramente complicatissime.