Sebbene la stretta attualità rimandi i pensieri ai nostri amici oltralpe, oggi ricorrono 39 anni dalla ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani e dall’assassinio di Peppino Impastato. Partiamo dal primo. Molto si è detto circa la morte di Moro per mano delle brigate rosse che, come disse Patrizio Peci – capo della “colonna” di Torino – intervistato da Enzo Biagi nel 1983, già nel 1977 avevano dubbi sul ruolo di Mario Moretti. Un traditore, un infiltrato da qualche partito – non per forza italiano – politico interessato a creare in Italia un clima di tensione e contemporaneamente impedire che le Br prendessero troppo piede. Dirigerle, manovrarle, contenerle. Si sa anche che arrivati alla fine le Br volevano liberarlo, avevano lasciato mille e più segnali. Sapevano che se l’avessero ucciso per loro sarebbe finita, mediaticamente, più che dal punto di vista giudiziario. All’interno del gruppo c’era molta divisione sulla decisione di chiudere il sequestro in maniera tragica così come era iniziato, versando sangue innocente.
La dubbia “Direzione Strategica” delle br emise la sentenza in tempo per impedire che l’allora presidente della Repubblica, Leone, firmasse un provvedimento di clemenza predisposto per Paola Besuschio. Leone aveva scelto in autonomia e con criteri umanitari, per le sue precarie condizioni di salute, fra i tredici detenuti di cui i terroristi avevano reclamato la liberazione. Anche il Papa si era speso molto e nell’ultima lettera Moro lo ricorda come il solo che «abbia fatto un pochino». Paolo VI era riuscito a stabilire un contatto con i rapitori ed era pronto a pagare un fortissimo riscatto per la sua liberazione proprio in contemporanea all’imminente firma di Leone. E sappiamo come finì.
Il giorno in cui venne rapito, il 16 marzo del 1978, Moro stava recandosi alla Camera per la presentazione del quarto governo del suo collega di partito Giulio Andreotti, appena costituito con la fiducia del Pci guidato da Enrico Berlinguer. Il tutto non senza una lunga e difficile trattativa politica condotta da Moro per la Dc. La sua nota capacità di persuasione e di realismo convinsero Berlinguer a rinunciare al proposito di fare nominare ministri due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci, accontentandosi di passare dall’astensione nei riguardi dello stesso governo alla fiducia, negoziandone solo l’aggiornamento del programma. Tutto questo era bastato alle brigate rosse, e a quanti le controllavano o usavano, a considerare sia Moro che Berlinguer, tenuti di mira da tempo, dei traditori della sinistra e complici dello Stato imperialistico mondiale contro il quale sentivano di dover combattere. E non potendo attentare a Berlinguer, lavoro per Mosca e dintorni, come si era già tentato di fare nel 1973 in Bulgaria, attentarono a Moro.
Col passare degli anni la notte della Repubblica, come fu chiamata la stagione del sequestro di Aldo Moro, si è purtroppo infittita, anziché schiarirsi. Ogni volta che si è cercato di venirne a capo con indagini giudiziarie e parlamentari, al di là della cattura e della condanna degli autori del sequestro, il buio ha coperto ipotesi e tristi certezze.
I misteri sono aumentati, anziché ridursi, e i racconti sempre più vaghi e reticenti, motivati con la necessità di coprire responsabilità e complicità inquietanti, capaci di compromettere ancora più di quanto già non sia accaduto il mito ideale e rivoluzionario, sia pure fallito, delle brigate rosse: sempre al minuscolo, come amava ricordare Pertini per non confonderle con chi ebbe un ruolo onorevole nelle Resistenza.
In quegli anni la spirale di violenza e morte sembrava non finire. Segreti su misteri, morti su processi, uno scacciava l’altro dalla mente dell’opinione pubblica sempre più sbigottita. Quando Peppino Impastato morì per un carica di esplosivo su una ferrovia, piazzata da due scagnozzi del boss di Cosa Nostra Tano Badalamenti, bersaglio preferito della sua “Radio Aut”, la notizia passò in secondo piano rispetto al ritrovamento di Moro. Come sappiamo dalla storia ben raccontata nel film I cento passi, proprio cento passi separano la casa di Peppino e quella di Badalementi, in un clima di omertà e disperazione per chi conosceva Peppino, figlio di un padre “vicino” alla mafia solo a causa del cognato, Cesare Manzella, capo della Cupola in quegli anni.
Peppino aveva l’entusiasmo del giovane che vede nell’omertà e nella violenza gli strumenti dell’oppressione, l’inizio della fine, la negazione del male che ne accresce solo la potenza. Lui, il male, l’ha guardato in faccia e oggi ricordarlo come un eroe ci permette di avere un modello, oltre ad alimentare la speranza. Per questo, per ricordarlo, non solo oggi, il comune di Cinisi ha aperto i luoghi simboli della storia di Peppino, in modo che tutti possano visitarli attraverso un percorso.
Il ricordo di queste due morti impone una riflessione, che però potrebbe risultare più efficace leggendo e meditando, soprattutto sull’oggi, le parole di altri più che le mie. Per citare nuovamente un’intervista di Biagi, è famosa, ma da ricordare sempre, la frase di Giuseppe “Pippo” Fava, – giornalista ucciso la sera del 5 gennaio 1984, per ordine di Benedetto Santapaola e Aldo Ercolano, entrambi mafiosi – pronunciata il 29 dicembre 1983, una settimana prima di morire, durante un’intervista, molto bella da leggere anche per l’evidente stima reciproca tra i due, che traspare da domande e risposte.
Biage chiede: Una volta si diceva che la forza dei mafiosi era la capacità di tacere, e adesso?
Pippo risponde:
La mafia gode di una tale impunità da essere diventata persino tracotante. Le parentele si fanno ufficialmente. Non credo ci sia questa paura, questa necessità di far silenzio. Io ho visto molti funerali di Stato, dico una cosa della quale io sono solo convinto e quindi potrebbe non essere vera: molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità.
Sapendo cosa Moro scrisse nell’ultima lettera alla moglie, potremmo pensare che avrebbe dato ragione a Fava. L’unica cosa che queste giornate del ricordo possono insegnarci è a rimanere vigili perché queste considerazioni non appartengono ad un’epoca passata, fanno parte del nostro presente. La chiacchierata con Biagi, infatti, Fava la conclude così: «Tutto nasce dalla politica e dagli uomini politici, dal fallimento della struttura politica e forse della nostra democrazia che noi, in buona fede, abbiamo appassionatamente costruito, ma che si sta sgretolando nelle nostre mani. Dovremmo ricominciare da lì.»
Pubblichiamo anche l’ultima lettera che Moro scrisse alla moglie Noretta.
Mia dolcissima Noretta,
dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell’incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della Dc con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza, così come si deve rifiutare ogni eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi), o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare.
E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile, e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore.
Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca), Anna, Mario il piccolo non nato, Agnese, Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo…“