Del: 19 Maggio 2017 Di: Elena Cirla Commenti: 0

In occasione della seconda edizione del Festival Internazionale della Poesia di Milano, nella sala biblioteca del Mudec, per l’occasione rinominata sala “Giulio Regeni”, si è tenuta la mostra sull’arte e sulla poesia degli aborigeni australiani. Un ensemble di una potenza unica, così come unica è la storia di tutta l’arte aborigena.

Gli aborigeni australiani, che in realtà comprendono una vasta quantità di tribù, riunite sotto lingue differenti – arelhe, anangu, yapa, koori, murri, nyungar, palawah e yolngu – non sono tanto distanti dal concetto occidentale di arte, nonostante la loro espressione abbia iniziato a sedimentarsi in modo permanente solo da pochi decenni.

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La loro storia inizia più di 10mila anni fa, momento in cui compare una peculiarità unica: la volontà di non apprendere un alfabeto e, di conseguenza, l’arte della scrittura.

La loro espressione favorita, senza dubbio, era la musica, a cui si univa la pittura sul corpo. Attraverso il tipico mugghiare del didgeridoo, lo strumento tradizionale, e la body art, essi riuscivano a creare un’opera d’arte totale, fortissima e insieme effimera, poiché, danzando notti intere intorno al fuoco, trasformavano l’opera in una performance temporanea – ai nostri occhi -, nonostante assolvesse principalmente a rituale mistico e catartico.

Il movimento, d’altronde, era l’essenza stessa del popolo aborigeno.

Le opere d’arte, se non sul corpo, erano riprodotte sul terreno attraverso l’ausilio dell’ocra, dei ciottoli e della sabbia. Materiali per nulla durevoli in sé, ma eterni se associati alla terra.

Terra sulla quale, a piedi nudi, gli aborigeni danzavano fino allo sfinimento, calpestando le opere d’arte appena riprodotte ma nutrendole di altra arte, che colava dai loro corpi dipinti. Arte su arte, unita alla musica e ai cori rituali. Le Vie dei Canti sono gli esempi più celebri e rappresentano una complicatissima toponomastica musicale che permette di ricreare e perpetuare i riti della creazione.

In questi miti la parola è il soggetto portante di tutto: è attraverso quest’ultima, infatti, che gli dei hanno emanato la propria forza creatrice in un momento mistico sospeso fra il presente e il “Tempo del Sogno” (o tempo della creazione). La parola cantata, dunque, è movimento, creazione, mutamento e rito. Per loro il canto è talmente importante che, ancora oggi, ogni neonato eredita una sezione di canto per diritto di nascita.

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È solamente a partire dagli anni ’30 del Novecento, dopo millenni di storia, che gli aborigeni iniziano ad accostarsi alla pittura tradizionale, grazie all’intervento dell’artista australiano Batterbee, che insegnò loro la tecnica della pittura a olio.

Ma la svolta avviene nel ’71: in una scuola nei pressi di Adelaide, nel nord dell’Australia, un insegnante d’arte incoraggia gli aborigeni di Papunya a riprodurre artisticamente le loro storie mitiche, con lo stile che utilizzavano per disegnare sulla sabbia, con la sola – ma rivoluzionaria – differenza che, in questo modo, le riproduzioni sarebbero rimaste intatte sulle pareti, senza dissolversi. La tecnica utilizzata, detta dot art, diventa l’esempio più diffuso di pittura aborigena, mentre si crea il primo collettivo di artisti, che prende il nome di “Papunya Tula”.

Tuttavia l’evanescenza, l’aspetto più forte, rimane nella poesia, la più volatile ed effimera di tutte le arti. Nessuna catena né imposizione, la letteratura aborigena, semplicemente, non è stata codificata e gode tuttora della magia dei canti spirituali antichi quanto l’umanità stessa.

” Di notte quando mi siedo vicino al fuoco
lo Spirito del Grande Serpente divenuto stella
io canto canzoni d’amore alla sua Presenza
mentre gioca con le scintille sul mio fuoco. ”  (Canto rituale aborigeno)

Elena Cirla
Studentessa di Lettere Moderne, classe 1994.
Amante dell'autunno, dei viaggi e del vino rosso.

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