
È ancora possibile fare del buon giornalismo? Domanda, provocazione, appello. È da questo interrogativo che ha preso le mosse l’intervento di Domenico Quirico, reporter per La Stampa, durante la presentazione del suo ultimo libro Il tuffo nel pozzo (della casa editrice Vita e Pensiero), in occasione di Tempo di Libri, la fiera dell’editoria milanese appena conclusa.
Il tuffo nel pozzo è una sorta di pamphlet sulla professione del giornalismo, mestiere che l’autore ha svolto per oltre 35 anni come corrispondente da Parigi ed inviato delle guerre più tristemente note dei nostri tempi.
Al centro della riflessione, il discorso etico del racconto, o come più spesso sentiamo dire oggi, dello storytelling, che, a detta di Quirico ma non solo, troppo facilmente sta perdendo di vista la sua vera essenza, la storia, per concentrarsi, in maniera quasi ossessiva, sul ‘telling’.
In un mondo in cui vige la narrazione mediatica della sofferenza e della morte, in cui i principali (se non gli unici) depositari dell’informazione sembrano essere i social network, in cui il fact checking diventa accessorio e nella gara all’ultimo tweet arriva prima chi riesce a condividere l’aggiornamento dell’ultimo minuto; che ruolo hanno le storie vere? Qual è l’importanza ed il valore di andare a parlare direttamente con la gente coinvolta, di assistere agli eventi di persona, di conquistarsi le informazioni necessarie, anche a costo di rischiare la propria vita per farlo?
Oggi, protesta Quirico, dalla comodità di un albergo, con l’aiuto di internet e di qualche telefonata, chiunque è in grado di partorire storie davanti ad un laptop.
Non c’è da meravigliarsi allora che il giornalismo sia in crisi.
Basta essere consapevoli che la colpa sia da ricercarsi proprio in chi lo ha relegato a questo, lettori inclusi.
Ridare onore al giornalismo, ma soprattutto alle storie che si raccontano, invece, spiega Domenico Quirico, significa essere presenti in prima persona lì dove le cose accadono, dove c’è bisogno che qualcuno testimoni, impedendo all’evento di passare inosservato o venire distorto. Con l’obiettivo, sempre meno realistico, di cogliere quella vibrazione di umanità che smuova, se sia ancora possibile, la presuntuosa indifferenza dei privilegiati. Sembra il minimo che si possa fare per chi quelle storie ce le ha raccontate, o a cui le abbiamo rubate, e che ora non c’è più.
L’unico segreto per riuscire a fare ciò, dice Quirico, è «innamorarsi della verità e rispettarla, scegliendo di tacere quando non si è presenti». Due dicotomie, quelle di presenza-assenza e parola-silenzio, indissolubilmente legate fra di loro, sulle quali dovrebbe (ma non sempre accade) fondarsi il modo di fare informazione. Quello che, in sostanza, dovrebbe imparare il giornalismo di oggi: tacere quando non ha nulla di vero da raccontare. Solo così potrà infatti mantenersi sincero e coerente con se stesso.
Ecco allora disvelarsi l’immagine del pozzo richiamata nel titolo del libro, un invito a «indagare vedere verificare svelare raccontare» gli imperativi di un giornalista che, per definirsi tale, deve
Tuffarsi nell’orrore, nel pozzo del reale senza chiudere gli occhi, tenendoli spalancati, non per se stesso, ma per aiutare gli altri, i lettori, ad esser lì dove non possono essere
Perché se qualcuno è presente, allora più nessuno può dire “io non lo sapevo”.