Del: 26 Maggio 2017 Di: Redazione Commenti: 0

Giacomo D’Alfonso

Ormai è un anno che ho lasciato il mio posto in Consiglio di Amministrazione della nostra amata Unimi ed è altrettanto tempo che non ho più alcun ruolo e non sono più membro di nessuna organizzazione di rappresentanza studentesca. Da un po’ prima (lo ammetto) mi sono stancato di parlare di temi “universitari”. Molti di voi non mi conosceranno, ma come potete intuire da queste tre righe, ho fatto parte del Cda della Statale, ero un rappresentante degli Studenti, facevo parte di una lista di rappresentanza e soprattutto ero stanco di occuparmi (dopo due anni di incarico) di questioni legate alla politica universitaria.

Gli ultimi fatti di cronaca che hanno coinvolto la nostra Università e in particolare la questione del numero chiuso a Studi Umanistici, mi hanno però spinto a rompere il silenzio e ho quindi deciso di riportare qui una mia personale riflessione, sperando però di non contribuire alla inutile sequela di sproloqui autoreferenziali che si sono letti su blog, giornali cartacei e non sul tema.

Il numero chiuso a Studi Umanistici, bisogna dirlo, non è un golpe né è una truffa e nemmeno una cosa folle; è l’espressione di una precisa linea politica di chi amministra l’Università, peraltro democraticamente eletto dalla maggioranza dei professori, troppo spesso ce ne dimentichiamo.
Il provvedimento è quindi figlio di una politica, non (come sostengono i promotori del numero chiuso) figlio di un perfetto calcolo ragionieristico, di una esigenza di bilancio o di strani rapporti studenti/professori, banchi/sedie e penne/quaderni.
La critica e il dibattito sul tema sono di conseguenza altrettanto legittimi e meriterebbero una discussione più profonda e più ampia di quella che si sta facendo oggi.

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(l’autore durante una seduta di Cda)

Il provvedimento che riguarda Studi Umanistici è, dicevo, un piccolo atto che fa parte di un disegno politico più grande, un progetto chiarissimo espresso in tutte le sedi istituzionali dal Rettore Vago e dal Prorettore alla didattica De Luca. Ma soprattutto è vincente. Infatti non è quasi mai direttamente il vertice dell’Ateneo a portare avanti queste iniziative, ma è il vertice dall’Ateneo ad incoraggiare le Facoltà verso questa direzione.

Il progetto politico si compone di svariati altri provvedimenti come l’aumento delle tasse ai fuoricorso e la diminuzione degli appelli, tutte scelte spacciate per obbligate e supportate ovviamente da dati scientifici quasi sempre elaborati in posti come il CERN tra una particella di dio e l’altra che dovrebbero portare all’eliminazione dello studente fancazzista, che poi, badate bene, è più o meno l’idea dello “studente medio” che i professori hanno.

Io personalmente non condivido questo disegno e so che molti di voi sono d’accordo con me, ma so anche che molti di voi non lo sono. Io, al di fuori di ogni tipo di retorica e ideologia, vorrei rivolgermi proprio alle persone che invece pensano che tutto questo sia giusto, che accettano le decisioni prese dall’alto come un dato di fatto immutabile, come se fosse la pioggia che cade dal cielo. Vorrei chiedergli se  capiscono che quello che avviene oggi, anche su questi temi, è uno scontro generazionale senza precedenti.

La generazione dei “vecchi” ci vuole divisi, in costante competizione per emergere, disorganizzati e poco solidali. È per questo che hanno portato avanti la vulgata dei “troppi laureati”, “futuri disoccupati” proprio perché troppi. In questo mondo moderno solo i migliori tra noi (che dovranno necessariamente essere pochissimi) ce la faranno.

La verità è che i laureati in Italia sono di numero superiore solo a quello della Romania (dati Eurostat) e che la loro generazione è talmente restia a scommettere sui giovani, da chiedere l’esperienza per fare il cameriere. Purtroppo spacciano a pochi eletti un misero e piangente piatto di opportunità, per un ricco pranzo luculliano per pochi eccellenti. Nella nostra Università le iniziative sono figlie di questo pensiero generale: si diminuiscono gli appelli per contrastare l’abbandono e alzare il numero di chi passa gli esami (dati alla mano ovviamente) ed evitare enormi quantità di studenti agli appelli. Si alzano le tasse ai fuoricorso per spingerli ad andarsene o come monito per chi non lo è ancora e si mettono i numeri chiusi per diminuire le “oceaniche” masse di studenti che invadono l’Università.

Se però andiamo a vedere i dati reali, scopriamo che molti professori non fanno il loro numero di ore di didattica previste dal regolamento di ateneo, che moltissimi mandano altri al posto loro a fare lezione, che tutti loro dovrebbero sapere il numero di studenti iscritti all’appello e organizzarsi di conseguenza, che (regolamento d’Ateneo alla mano votato da professori ecc… )dovrebbero essere istituiti appelli speciali per i fuoricorso, che gli appelli dovrebbero durare fino a fine luglio (non fino alla prima settimana di luglio) e che il tetto fissato a sei, non è “massimo”, ma è “minimo”. E ancora, si scopre che le biblioteche potrebbero essere accorpate per facoltà e non per dipartimento, tenendole così aperte e le aule possono essere ristrutturate e che nel progetto di spostamento ad Area Expo, si potrebbe fare un’enorme Università con spazi idonei (se non ci fossero altri imprecisati interessi). Andando poi indietro con la storia, si scopre che chi oggi sostiene la necessità del numero chiuso e sostiene la riduzione degli appelli e la disinfestazione del fuoricorso è, molto spesso, chi si è laureato nel post ‘68: con meno esami da fare, meno anni di studio (a volte), un appello al mese e accesso libero all’istruzione universitaria. Che fannulloni.

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