Numero chiuso per i futuri studenti di Studi Umanistici. Se ne parla? Sì, ma non con la dovuta chiarezza. E questo non per la disinformazione dei rappresentanti degli studenti o per improvviso e generale disinteresse nei confronti delle sorti del nostro Ateneo, ma soprattutto per la sospetta rapidità con la quale la proposta è stata portata avanti nelle ultime due settimane. Andiamo con ordine.
Il 28 aprile scorso, durante la seduta del Comitato di direzione, è stata discussa l’ipotesi di introduzione dell’accesso limitato. I rappresentanti degli studenti, in quella data, non sono stati coinvolti perché il Comitato si sarebbe riunito in via straordinaria (ma esistono davvero Comitati straordinari? In base a quale normativa si possono escludere gli studenti?). La convocazione di questi ultimi è poi effettivamente avvenuta, ma solo dopo il presidio di venerdì 5 maggio.
Ma perché è stata avanzata questa proposta? La vicenda del numero chiuso è stata presentata come una necessità assoluta, a seguito del decreto MIUR del dicembre 2016 sulla gestione della università e sulla valutazione dei corsi di studio.
L’ultimo decreto ministeriale, infatti, sancisce nuovi criteri per autorizzare l’attivazione dei corsi di studio; tra questi, quello che rende più stringente il rapporto degli studenti iscritti al primo anno e i docenti di riferimento. Secondo il nuovo criterio ANVUR (l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), quindi, per i corsi di laurea della facoltà di Studi Umanistici il numero minimo di docenti è 9 e la numerosità massima di una classe di studenti è 200. Se questo rapporto non venisse rispettato si rischierebbe di perdere l’accreditamento e, nel giro un anno, il corso verrebbe soppresso. 9 docenti per 200 studenti massimo significa una ventina circa di studenti a docente, come una classe delle superiori. Fino a qui, tutto bene. Il criterio ANVUR non è affatto stupido: classi non sovraffollate significano potenzialmente maggiore qualità di insegnamento e maggiore interazione tra studente e docente.
Il problema è così urgente perché negli ultimi anni si sono verificati aumenti del numero di iscrizione ai vari corsi di laurea, e in particolare nell’anno corrente si è registrata una crescita straordinaria in ogni facoltà, fatta eccezione per Lettere. (Non perché Lettere abbia improvvisamente perso appeal rispetto agli altri corsi di studio, ma per l’introduzione di un test di autovalutazione obbligatorio per immatricolarsi. Molti studenti, ignari di questa novità, non hanno potuto iscriversi a settembre).
L’introduzione del numero chiuso viene presentata, inoltre, come unica via percorribile: la soluzione sarebbe cioè diminuire gli studenti e lasciare invariato il numero di professori. Chiaramente, questa non è l’unica via. L’altra soluzione sarebbe aumentare i docenti, proposta di cui, ovviamente, non si è mai discusso ai piani alti.
Vago XIV
Ma il fatto più grave, che si sia d’accordo o meno con questa introduzione, è un altro. Martedì 9 maggio, in commissione didattica, i collegi si sono espressi negativamente a riguardo: Lettere, Storia e Beni Culturali hanno dichiarato di non essere in grado di decidere così in fretta su una questione così complessa. Si sono limitati a confermare la politica sugli accessi, ossia i test di autovalutazione dove già erano presenti e la loro introduzione dove non lo erano. In seguito, anche Filosofia si è espressa negativamente.
I collegi didattici hanno tutti votato per rimandare.
Su proposta del Rettore, però, si è deciso di portare comunque la delibera in Senato Accademico, che valuterà la proposta martedì 16 maggio.
Ricapitolando: l’Università ha un problema. Invece di risolverlo tenendo conto del parere degli studenti o perlomeno di quello dei collegi didattici che evidentemente in questo contesto valgono quanto gli studenti (ossia, zero), si decide, nel giro di una ventina di giorni, di rimettere tutto nelle mani del Senato. Il Senato è forse in grado di decidere al meglio per il bene dell’Ateneo senza considerare le delibere di organi inferiori? E poi, perché tutta questa fretta? Ricordiamo che, in linea di massima, è disponibile ancora un anno per risolvere la faccenda. Questo non è il modo di risolvere le difficoltà, tanto più in una università pubblica.
Perciò, per martedì 16 maggio è stato organizzato un presidio prima della riunione del Senato, per manifestare il pieno disaccordo non tanto verso la soluzione in sé (discutibile per alcuni, condivisibile per altri) quanto piuttosto verso le modalità della gestione del problema (del tutto inaccettabili).
Modalità autoritarie e antidemocratiche.
Per molti il presidio sa di Sessantotto, un modo di contestare passatista e superato, ma in questo caso quali altre alternative abbiamo per comunicare il nostro dissenso?