Quando ha iniziato il suo mandato, nel gennaio di quest’anno, Marcelo Crivella, nuovo sindaco di Rio de Janeiro, ha dichiarato di voler costruire un muro «come quello di Gerusalemme, perché non entrino più armi e droga». Una dichiarazione che non ti aspetti da un ex vescovo evangelico, interpretata da molti come “il tentativo di proteggersi dalla favela”.
Nella capitale carioca le persone che vivono nelle favelas sono pari al 22% della popolazione totale, oltre sei milioni, più di qualsiasi altra città del Brasile. Nessuno conosce esattamente quante favelas ci siano a Rio, ma si sa con certezza che queste superano il migliaio.
Da tempo, l’emergenza abitativa della città non fa notizia. Erano gli anni novanta quando il tema della sicurezza pubblica è entrato prepotentemente nell’agenda politica brasiliana a causa degli alti indici di violenza urbana e, in particolare, dell’alto tasso di omicidi, spesso legati al traffico di droga. Nell’immaginario collettivo, Rio era una città estremamente violenta, dove la vita quotidiana dei suoi abitanti era scandita dal conflitto tra i trafficanti e la polizia, oltre che da assalti, sequestri ed omicidi. Il problema era diventato più urgente con la crescita, per ampiezza e numero di abitanti, delle favelas. Sorti negli ultimi anni del diciannovesimo secolo, nella fase di transizione dall’impero alla repubblica, questi slum, originariamente pensati per ospitare provvisoriamente migranti e lavoratori itineranti, si sono trasformati in agglomerati urbani permanenti, senza che le autorità municipali riuscissero mai ad estendere i servizi essenziali, come acqua corrente, servizi igienici, assistenza medica, trasporti, raccolta dei rifiuti.
Agli sfratti e ai trasferimenti forzati che da sempre animano la vita nelle favelas, a metà degli anni Ottanta si è aggiunta la minaccia della violenza legata al traffico di droga e la brutalità degli scontri con la polizia. Benché Rio fosse ormai un centro nevralgico per l’esportazione della droga verso i paesi andini, ma anche gli Stati Uniti e l’Europa, già allora la politica locale ha cominciato a sostenere il progetto per la trasformazione della città in un palcoscenico per grandi eventi internazionali. Il rinnovamento di Rio, volto a cambiarne l’immagine internazionale trasformandola in una città sicura e appetibile ai turisti, non poteva non coinvolgere anche le sue baraccopoli.
Le Olimpiadi, però, hanno lasciato un senso diffuso di promesse non mantenute tra le favelas di Rio, nient’altro.
Nel 2012, il sindaco Paes aveva previsto l’integrazione delle favelas al resto della città entro la fine del decennio attraverso lo sfruttamento delle infrastrutture olimpiche per assicurare a queste comunità la disponibilità di servizi di base, ma cinque anni dopo sono ancora lì, insieme all’esclusione e all’emarginazione nelle quali vivono i favelados.
Il processo di pacificação, cominciato nel 2008 con l’installazione dalla prima Unità di Polizia Pacificatrice (UPP) nella favela Santa Marta, nel quartiere Botafogo a sud della città, intende intende portare la pace attraverso l’occupazione permanente delle principali favelas da parte della polizia militare.
La pacificazione vorrebbe favorire l’integrazione di questi spazi, considerati ai margini della città, con il tessuto urbano, in una prospettiva di recupero del territorio da parte dello Stato. In gioco ci sono gli interessi degli abitanti alla salvaguardia della propria vita e quello del potere pubblico a mantenere l’ordine. Nel 2010, è stato lanciato il programma UPP social che prevedeva una cooperazione tra governo e comunità pacificate che potesse favorire il dialogo, mettere in luce le necessità e, infine, portare ad un miglioramento dei servizi pubblici nelle favelas, in particolare sicurezza, istruzione, salute, miglioramento condizioni igienico-ambientali. Nonostante le buone intenzioni, l’immaginosa aspettativa descritta dalla formula della “sicurezza con servizi (sociali)” ha ottenuto fallimentari.
Esperti di sicurezza e sviluppi sono scettici sull’impatto duraturo dell’UPP social. Molti ritengono che il programma si sia limitato a documentare e mappare le necessità, senza che a queste attività sia effettivamente seguito un maggiore accesso ai servizi. Il professor Ignacio Cano, direttore del laboratorio di analisi della violenza all’università di Rio sostiene che “l’UPP oggi è un programma di polizia, la parte sociale è una decorazione che non ha modificato la qualità della vita delle comunità interessate”. In effetti, c’è speranza per l’implementazione delle politiche sociali se non è realizzato il prerequisito della pacificazione territoriale. Questa è ostacolata dall’immagine negativa della polizia diffusa tra i favelados: gli scontri del passato, così come le incursioni violente e arbitrarie sono un’eredità pesante da superare. Anche se gli ideatori del programma hanno previsto la formazione dei membri delle UPP in materia di diritti umani, gli abitati delle baraccopoli non hanno imparato a fidarsi di loro. Così, quella che la politica locale la chiama “pacificazione”, i favelados la chiamano “occupazione”.
Oggi, le cose non sembrano essere cambiate.
Nuovi episodi di violenza si verificano ancora regolarmente. Lo scorso 3 maggio, nella favela Cidade Alta una serie di tiroteos – gli scontri a fuoco tra la polizia e i trafficanti di droga – ha causato diversi morti. Nel Complexo de Alemao, a nord di Rio, la lotta tra i cartelli del narcotraffico non sembra dare tregua.
Nel suo rapporto annuale, Human Rights Watch ha denunciato come la tortura e le esecuzioni illegali della polizia contribuiscano al ciclo di violenza che affligge endemicamente il Brasile, minando la sicurezza pubblica e mettendo in pericolo la vita sia degli abitanti che degli agenti di polizia. Le uccisioni rendono i membri delle gang più restii ad arrendersi pacificamente e motiva i criminali ad uccidere gli agenti appena ne hanno occasione. In questo clima, gli abitanti delle comunità sono meno inclini a denunciare le attività criminali e a presentarsi davanti alle autorità come testimoni.
Oggi, il governo di centro-destra di Temer sembra più interessato a tagliare le spese e a gestire gli scandali più che ad occuparsi dell’inclusione sociale.
Il Brasile è ancora il paese con il più elevato numero di omicidi al mondo.
L’era Crivella è iniziata da poco. Il sindaco ha annunciato la promozione di un nuovo programma per far fronte all’emergenza abitativa, ma per ora non c’è nulla di concreto.
Intanto, lo scorso 16 maggio 2017, la Corte interamericana dei diritti umani ha condannato il Brasile per le gravi violazioni dei diritti umani commesse durante gli episodi di violenza della polizia nelle favelas di Rio risalenti agli anni Novanta. È un importante precedente nella lotta all’impunità. Non basterà a pacificare le favelas.