Del: 2 Giugno 2017 Di: Letizia Gianfranceschi Commenti: 0

Proprio come il colonnello Aureliano Buendía, l’eroe di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Marquez che, di fronte al plotone di esecuzione, si ricordò «di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio», molti pakistani ricordano ancora i viaggi intrapresi da bambini tra le montagne regine dell’Asia centrale e meridionale, quando i loro avi gli hanno insegnato a «piantare il ghiaccio».

Una volta raggiunte le vette del Karakorum e dell’Himalaya, ai ragazzi veniva insegnato che, per far nascere il ghiaccio, occorreva accostare un pezzo di ghiaccio bianco e puro ad un altro sporco di fango. Così accade, generazione dopo generazione.

Per un paese in cui il 70% della popolazione dipende direttamente o indirettamente dall’agricoltura, le risorse idriche, la loro gestione e la loro distribuzione sono di importanza vitale. Nella regione più ricca di ghiacciai di tutto il pianeta al di fuori delle terre polari – e per questo soprannominata “terzo polo”, – i ghiacciai, che durante la stagione estiva si sciolgono e confluiscono nel fiume Indo, sono la principale fonte di rinnovamento idrico.

Il docufilm Karakorum Anomaly,una delle proiezioni inserite nel programma del primo Festival Italiano dello Sviluppo Sostenibile, in corso dal 22 maggio al 7 giugno in tutta Italia, riflette sul rapporto reverenziale che lega i pakistani alla natura, e la loro percezione del cambiamento climatico.  Non a caso l’intera manifestazione, alla quale il Politecnico di Milano e l’ Università degli Studi di Milano – che collaborano sin dal 2011 nell’ambito del progetto congiunto Città Studi Campus Sostenibile – partecipano con un articolato e ricco programma di eventi, intende richiamare l’attenzione sui 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs) sottoscritti dall’Assemblea Generale dell’ONU nel settembre del 2015.

Combattere il cambiamento climatico è uno di questi obiettivi e non poteva essere altrimenti. Nel 2016, il Pakistan si è posizionato all’ottavo posto nella classifica elaborata da German Watch dei paesi che hanno subito il maggiore impatto dei cambiamenti climatici nel periodo compreso tra il 1995 e il 2014. Le inondazioni di massa avvenute nel 2010 avevano ridotto alla fame le regioni colpite, innescando una crisi umanitaria giudicata dalle Nazioni Unite «di proporzioni epiche», con tassi di malnutrizione pari a quelli registrati nei paesi africani. Quel disastro è stato percepito con una certa rassegnazione dalla gente del posto, quasi fosse una punizione divina.

Lo dice nel documentario anche Nazir Sabir, il primo pakistano ad aver compiuto l’impresa di scalare l’Everest e il K2: tutti i pakistani da sempre guardano con rispetto alle montagne.

Lo speciale rapporto che lega uomini e natura non è la sola particolarità di questo paese giovane, recente come il mondo di Cent’anni di solitudine, dove molti aspetti della vita erano privi di nome. Creato nel 1948 per le minoranze non hindu dell’India, il Pakistan non è un paese omogeneo. Contiene, infatti, un piccolo Tibet: il Gilgit-Baltistan ribelle, una regione montuosa limitata a nord dalla catena del Karakorum dove l’impatto dell’opera di islamizzazione condotta dai missionari sufi nel periodo medievale è stato maggiore che nel resto del paese.

Dopo le inondazioni del 2010, quando il cambiamento climatico è stato percepito per la prima volta come un pericolo concreto ed imminente, nessuno si aspettava che, in controtendenza rispetto all’Himalaya, il Karakorum potesse diventare un’eccezione al collasso dei ghiacciai. L’espressione «anomalia del Karakorum» è stata coniata già nel 2005 dal glaciologo canadese Ken Hewitt, colpito dalla stabilità dei ghiacciai di questa catena montuosa, che, a differenza di quelli himalayani, non sono in ritiro. Nel 2012 lo studio di un team di ricercatori dell’Università di Grenoble e del CNRS di Tolosa pubblicato su Nature geoscience è andato oltre, sostenendo che i ghiacciai sarebbero, addirittura, in leggera crescita.

Anche in questo caso, la fotografia è stata utilizzata per analizzare il comportamento climatico delle montagne e ha dimostrato un’evidente somiglianza tra le superfici dei ghiacciai del Karakorum con quelle studiate 150 anni fa. Il motivo di questa anomalia non è ancora ben chiaro. Le ipotesi di spiegazione della stabilità e dell’espansione del glacialismo sono diverse, ma per ora nessuna è stata confermata. Il segreto della longevità dei ghiacciai del Karakorum potrebbe essere in quella coperta naturale di detriti che riveste le aree di fusione dei ghiacciai (il 30 per cento di essi ha una spessa copertura di sassi, ghiaia e limo). L’espansione potrebbe essere, invece, dovuta un fenomeno detto “surge”: l’innalzamento delle temperature provoca una maggiore evaporazione dell’acqua. Una volta arrivato in prossimità del Karakorum, il vapore acqueo generatosi tenderebbe a ricondensare, favorendo così la creazione di nuovo ghiaccio.

I pakistani, inizialmente sorpresi, dicono di aver capito. Molti di loro sostengono che “nessun essere umano è abbastanza forte per cambiare il Karakorum”, la spiegazione è tutta qui. Come ripetono spesso gli studiosi, inutile gridare che non è vero: il cambiamento climatico esiste, e l’anomalia del Karakorum non confuta questo grande tema.

Del resto, la situazione – opposta – di cui è protagonista l’Himalaya lo conferma: secondo un gruppo di ricercato internazionali, la maggior parte dei ghiacciai del monte Everest è destinata a scomparire o a ritirarsi drasticamente a causa dell’aumento delle temperature.

Le conseguenze economiche e sociali di questo fenomeno non vanno sottovalutate: dopo i monsoni, per tutto il resto dell’anno, gli agricoltori pakistani per irrigare le loro terre si affidano a fiumi, soprattutto all’Indo alimentato dai ghiacciai. Per questo, se i ghiacciai un giorno dovessero scomparire,  sarebbero totalmente dipendenti dalla monsone. Se la sua produzione di grano dovesse non bastare più, il Pakistan dovrebbe iniziare ad importarlo e il prezzo del pane schizzerebbe verso l’alto, con prevedibili conseguenze in un Paese dove l’instabilità politica e sociale è altissima.

Eppure, come ricorda il regista Niccolò Piazza, in occasione della proiezione del documentario al Politecnico di Milano il 29 maggio : «Il Pakistan è un paese giovane, adolescente, che non ha ancora deciso cosa fare da grande e per il quale il cambiamento climatico non è, al momento, una priorità». Per adesso, Islamabad sembra più impegnata a rafforzare i legami con la Cina. Questa, d’altro canto, ha elaborato un progetto per la creazione di un corridoio economico imperniato sul porto di Gwadar, affacciato sul Mare Arabico, con cui Pechino intende aggirare lo Stretto di Malacca, riducendo di oltre 10 mila chilometri la distanza marittima dagli strategici giacimenti di idrocarburi situati nella regione del Golfo.

Si prevede la costruzione di una fitta rete di infrastrutture sul territorio pakistano. Poche settimane fa, i due paesi hanno firmato un memorandum per lo sviluppo di un sistema di dighe da 50 miliardi di dollari. Difficile capire cosa ne pensino i pakistani. Nel 1978, la notizia della costruzione della Karakorum Highway era stata accolta con sentimenti contrastati: da un lato, la strada asfalta internazionale più alta del mondo è stata considerata un’occasione per incrementare il turismo e favorire forme di imprenditorialità; dall’altro, è stata percepita come innaturale.

I tempi cambiano, il clima anche, ma il rapporto dei pakistani con la natura e le montagne è ancora sacro.

Letizia Gianfranceschi
Studentessa di Relazioni Internazionali. Il mondo mi incuriosisce. Mi interesso di diritti. Amo la letteratura, le lingue straniere e il tè.

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