Del: 25 Settembre 2017 Di: Novella Gianfranceschi Commenti: 0

Il concetto di sostenibilità è molto ambiguo. Sebbene venga ampiamente utilizzato, di rado ne è stata fornita una definizione quantitativa. In forma semplificata, l’uso sostenibile delle risorse si basa sull’equilibrio tra la domanda dell’uomo e l’offerta dell’ecosistema. Affinché lo sfruttamento possa considerarsi sostenibile, la velocità  con la quale la risorsa va utilizzata (il tasso di consumo o raccolta) non deve eccedere quella con la quale la risorsa è fornita dall’ecosistema (velocità  di rimpiazzo o rigenerazione), altrimenti la disponibilità  della risorsa decresce nel tempo.

Un esempio di come agisce questo principio è fornito dallo sfruttamento delle risorse idriche del Lago d’Aral in Asia Centrale. Originariamente, il lago era ampio all’incirca 68.000 km², una superficie che lo rendeva il quarto lago più grande del mondo. Il suo nome, Aral Denghiz, significa “mare delle isole” e testimonia la sua origine oceanica e la presenza, al suo interno, di alcune isole.

Dal 1960 il volume e la superficie del lago sono diminuiti di circa il 75%.

Nel 2007 era ridotto al 10% della dimensione originaria. Il parziale prosciugamento del lago d’Aral è stato causato principalmente dalla deviazione dei suoi immissari, i fiumi Am’ Dar’ya e Syr Dar’ya, le cui acque sono state destinate all’irrigazione dei campi di cotone creati dall’Unione Sovietica nelle aree circostanti. A capo del progetto di riqualificazione agricola c’era un certo Grigory Voropaev che durante una conferenza sui lavori dichiarò che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral”.  La necessità di acqua era così ingente che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l’enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all’agricoltura e, testualmente, “un errore della natura” che andava corretto. I pianificatori ritenevano che il lago, una volta ridotto ad una grande palude acquitrinosa, sarebbe stato facilmente utilizzabile per la coltivazione del riso. Così in soli quarant’anni la linea di costa del lago è arretrata di 150 km lasciando un deserto di sabbia salata invece del previsto acquitrino. Infatti, la sua posizione geografica (si trova al centro dell’arido bassopiano turanico) lo rende soggetto a una forte evaporazione che non è più compensata dalle acque degli immissari.

Il 1982 fu l’anno della definitiva cessazione di ogni attività  correlata alla pesca nel lago. Gli stabilimenti di lavorazione del pesce continuarono comunque a funzionare, in quanto il governo di Mosca ordinò che parte del pesce pescato sul Mar Baltico fosse trasportato e lavorato presso gli impianti di inscatolamento di Moynaq, città situata a sud del lago, in Uzbekistan. Tuttavia, gli irragionevoli costi di questa pratica ne imposero il fermo. Oggi  sia Moynaq che la città  di Aralsk, a nord-est del lago, in Kazakistan, sono diventate meta di un lugubre turismo che cerca le carcasse delle navi arrugginite, abbandonate in quello che ora è un deserto di sale. Nel 2011 l’archivio storico, curato dal Kazakistan, che documenta l’evoluzione del disastro dal 1965 al 1990, è stato dichiarato Memoria del mondo dall’UNESCO.

Allo stato attuale, l’unica nazione che ha intrapreso provvedimenti concreti per la situazione è il Kazakistan. In pratica, al di là di alcuni accordi formali tra loro, i governi delle altre nazioni che insistono nell’area interessata al passaggio dei due fiumi (Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan, Kirghizistan ed in parte l’Afghanistan) non hanno intrapreso significative azioni comuni per ripristinare l’afflusso delle acque verso il bacino del lago. Il motivo è che la coltivazione del cotone impiega ormai una quantità di lavoratori cinque volte maggiore di quella che una volta era impiegata nella pesca, che peraltro era concentrata nei soli Kazakistan ed Uzbekistan. Inoltre, i terreni che le acque del lago hanno scoperto ritirandosi hanno mostrato di essere ricchissimi giacimenti di gas naturale.

Il lago è oggi diviso in due bacini. Il lago a nord (“Piccolo Aral“) è stato isolato dalla parte sud con la costruzione di una diga, finanziata dalla Banca Mondiale, e nuovamente ricongiunto, seppur con un afflusso ridotto, all’antico affluente Syr Darya. Dal 2003 al 2008 la superficie del Piccolo Aral è passata da 2.550 km² a 3.300 km². Nello stesso periodo la profondità è passata da 30 a 42 metri. In alcuni villaggi è ripresa l’attività di pesca dopo che alcune specie di pesci erano state reintrodotte. Le acque del lago, inoltre, sono risultate abbastanza pulite da essere potabili e la salinità è tornata livelli simili a quelli precedenti al 1960. La costruzione di una nuova e più grande diga finanziata anch’essa per l’85% dalla Banca Mondiale e per il 15% dal governo del Kazakistan ha l’obiettivo di riportare il livello del “Piccolo Aral” fino a consentirgli di bagnare e rendere nuovamente operativo, entro la fine del 2017, il porto di Aralsk.

C’è da considerare tuttavia il fatto che il “Piccolo Aral” giace completamente sul suolo del Kazakistan e la sua divisione ha, in pratica, condannato a morte il “Grande Aral”, che invece giace in gran parte in Uzbekistan. Ciononostante, l’esistenza di soluzioni per riportare il lago al livello originario è stata dimostrata in più occasioni da ingegneri idraulici e studiosi di varie parti del mondo.

Si è proposto l’uso di varietà  di piante di cotone che richiedono un’irrigazione minore, ottenute grazie a nuove tecnologie di ingegneria genetica; la realizzazione di canali che deviino nell’Aral parte delle acque dei fiumi Volga, Irtys e Ob’ (questa soluzione riporterebbe il lago al suo livello originario entro un massimo di 30 anni, ma i lavori implicherebbero un costo dai 30 ai 50 miliardi di dollari); infine, la costruzione di un acquedotto che, previa desalinizzazione, porti acqua all’Aral dal mar Caspio.

Il problema è che il cotone è diventato l'”oro bianco” dell’Uzbekistan, base dell’economia nazionale. Dal 1991, cioè da quando è diventato indipendente, il Paese è il sesto produttore al mondo del settore, benché sia solo il 56° per superficie coltivata. Ogni anno le campagne uzbeke forniscono un milione di tonnellate di fiocchi: 50kg per abitante. E se invece del cotone prodotto consideriamo quello esportato, l’Uzbekistan è addirittura al secondo posto in classifica, preceduto solo dagli Stati Uniti. La raccolta del cotone avviene in autunno ed è così massiccia che sfrutta persino il lavoro minorile.

Al di là  di qualsiasi definizione quantitativa di sostenibilità, sembra proprio che i primi semi di cotone furono piantati dal governo Sovietico con un’insostenibile leggerezza, che ancora pesa su tonnellate di fiocchi.

Novella Gianfranceschi
Laureanda in biologia evoluzionistica, penso mentre cammino e cammino per pensare, così evito qualsiasi tipo di dualismo mente-corpo, filosofia e scienza.

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